Una comunità con tratti stalin-nazistoidi, che esprime una profonda discriminazione nei confronti delle donne (ne hanno solo una) e che, forse, è anche razzista. Che Paese è? Cuba? L’Italia? Ma no: è Puffolandia, la patria dei Puffi, almeno secondo il ritratto – satirico, per i tanti che non l’hanno capito – fatto da Antoine Buéno nel suo Libretto Blu. I puffi hanno una guida verticistica, predicano un’uguaglianza totalitaria e, come unico elemento femminile possono contare solo su Puffetta.
Ma il razzismo dove è? Secondo alcuni sedicenti studiosi, apparirebbe in una vecchia storia del 1963, “I Puffi neri”, in cui compare un gruppo di Puffi di colore scuro, violenti e aggressivi, che cercano di distruggere la comunità dei Puffi blu.
Neri e cattivi. È bastato questo, molti anni dopo, per convincere gli editori della traduzione americana a intervenire. Troppo razzista, hanno pensato. E allora, con un tocco di pennello, i Puffi neri sono diventati violetti – ma restando cattivi.
Il problema è che spesso il razzismo è, più che altrove, nell’occhio di chi guarda, e questo è un caso da manuale. Quei Puffi neri non rimandavano, né in modo esplicito né, soprattutto, in modo implicito, a nessun discorso del genere. Lo dimostra qui lo studioso André Gunthert, con uno studio attento che smantella i pregiudizi sui pregiudizi. Certo, oggi l’idea di un gruppo ostile, definito dal colore più scuro della pelle, invadente e affamato (queste erano le connotazioni dei Puffi neri) viene spesso associata agli stereotipi razzisti sugli stranieri, in generale di origine africana. Ma la storia dei Puffi è più antica: risale al 1959 e per capire quali citazioni siano in atto occorre un minimo di ricostruzione storica.
Prima di tutto, va fatta un po’ di pulizia. L’ipotesi che il testo richiamasse le teorie complottiste della sostituzione etnica della popolazione europea/bianca con africani e mediorientali va scartata: sono paranoie troppo recenti per aver influenzato la stesura della storia. All’epoca, semmai, circolava una versione simile, sottotraccia, che però individuava negli invasori gli ebrei.
In secondo luogo, la struttura stessa del racconto sembra richiamare altri modelli. I Puffi neri non nascono neri, ma lo diventano in seguito a un morso. È un’epidemia, insomma, non una condizione. In più la struttura apocalittica della vicenda, con tanto di scontro finale definitivo e assalto di massa a Puffolandia, somiglia troppo alla trama di Io sono leggenda – che prima di essere un film del 2007 con Will Smith, è un romanzo del 1954 di Richard Matheson – perché sia un caso. Anche altri motivi presenti nelle due opere sembrano confermarlo, come la salvezza che arriva grazie a una pozione e il trucco del travestimento di un Puffo nero nel campo avversario. La fonte, allora, non sarebbero tesi razziste dell’epoca del Belgio coloniale, ma un romanzo di zombie e fantascienza.
A sostegno di questa lettura c’è anche un altro dato: le rappresentazioni razziste nei fumetti, all’epoca, erano molto diverse. I tratti stereotipici delle popolazioni africane non erano limitati al colore della pelle, ma si concentravano sulla grandezza delle labbra (molto carnose), su vestiti tribali e sul linguaggio traballante e caricaturale. Insomma, il razzismo c’era ma, a differenza di oggi, era palese, chiaro ed esplicito. Per individuarlo non serviva alcuna decodifica, più o meno esoterica, dei segni, che sembra andare a colpire le intenzioni (mai dimostrate) e non gli effetti.