Tutti giù dal treno: ora Renzi è rimasto davvero solo (ma se per caso vince…)

L’indagine su Pierluigi Boschi nell’anniversario della sconfitta al referendum costituzionale è l’ultima mazzata di una campagna elettorale iniziata male. Ora la paura è che Grasso faccia un buon risultato. Ma qualcuno che lo pensa sottovoce c’è: «E se stessimo sottovalutando Renzi?»

ALBERTO PIZZOLI / AFP

Tutti in bilico sul carro di Renzi, che non è mai stato così scricchiolante. L’ultima mazzata, in ordine cronologico, è la scoperta di un’indagine a carico di Pierluigi Boschi, papà di Maria Elena, per la vicenda Banca Etruria. Una doccia ghiacciata, che rischia di compromettere il disegno narrativo nato un mese e mezzo fa con la mozione contro il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. L’obiettivo del Giglio magico (ambizioso, per molti addirittura spudorato) era quello di risalire la china dei pessimi sondaggi utilizzando come cavallo di Troia proprio uno dei temi di maggiore criticità del renzismo: le banche. Il lavoro della commissione d’inchiesta parlamentare avrebbe dovuto capovolgere il punto di vista, addossando tutte le responsabilità su Via Nazionale e Consob. L’unico modo per uscire puliti da una storia che pesava come un macigno sui “mille giorni” del governo Renzi. Un piano che fino a ieri pomeriggio sembrava funzionare ma che, con l’iscrizione di Boschi nel registro degli indagati, è già clamorosamente fallito, almeno a livello comunicativo. Un’altra botta durissima, alla vigilia di una campagna elettorale che si preannuncia drammatica.

Al Nazareno si assiste a tutto questo con frenesia e confusione. Il segretario non si vede da mesi, impegnato nel suo tour in treno che concluderà (su un van in Sardegna e in Sicilia) questa settimana. Nei quaranta giorni di viaggio su e giù per la Penisola hanno fatto capolino sulle cinque carrozze del Frecciabianca renziano vecchi e nuovi parlamentari, giovani di belle speranze, ministri di diverso lignaggio. Qualcuno è salito per puro dovere di rappresentanza (Minniti, Franceschini, Delrio), la stragrande maggioranza con un solo obiettivo: la rincorsa a un posto in lista. E così il treno è diventato la metafora del famoso carro, dove sono tutti pronti a salire in cerca di un posto al sole, ma dal quale tutti sono pronti a scendere senza particolari patemi. Quel che è certo è che, finché a decidere le posizioni in lista e i candidati da far correre nei collegi sarà Renzi, come non c’erano sedili vuoti sul treno, non ci saranno panche vacanti sul carro.

C’è una grossa fetta del gruppo dirigente del Pd che, nonostante le dichiarazioni di facciata, vede in maniera tutt’altro che indifferente l’operazione messa in piedi a sinistra del Pd e la discesa in campo di uno come Pietro Grasso. La paura è che, con il passare delle settimane, la “nuova proposta” possa ottenere sempre più credito, specie in quegli ambienti che negli ultimi anni sono stati i veri incubatori dell’antirenzismo

Il tema è capire quanto e se quello stesso carro sarà affollato dopo le elezioni. Gli scenari che vengono prospettati nei corridoi del quartier generale dem sono più o meno tre. Il primo, quello che sta ottenendo più riscontri è una sorta di funerale anticipato per il renzismo. C’è una grossa fetta del gruppo dirigente del Pd che, nonostante le dichiarazioni di facciata, vede in maniera tutt’altro che indifferente l’operazione messa in piedi a sinistra del Pd e la discesa in campo di uno come Pietro Grasso. La paura è che, con il passare delle settimane, la “nuova proposta” possa ottenere sempre più credito, specie in quegli ambienti (vedi Fatto Quotidiano) che negli ultimi anni sono stati i veri incubatori dell’antirenzismo. Un quarto polo forte a sinistra potrebbe essere la pietra tombale sulle velleità di vittoria del Pd, con un numero crescente di collegi dati per certi che invece tornerebbero in bilico. È anche per questo che dal Nazareno è arrivato l’ordine di scuderia che non ci si confronta con i nuovi esponenti di “Liberi e Uguali” in tv, con l’intento di bloccare sul nascere l’avanzata della sinistra, almeno a livello mediatico.

Sta di fatto che, se Grasso riuscirà a far raggiungere a D’Alema e compagni l’agognata doppia cifra, con un Pd al di sotto del risultato che ottenne Bersani cinque anni fa, per Renzi sarebbe il capolinea e il carro si svuoterebbe in un nano secondo. A quel punto, sempre che la destra non abbia già i numeri sufficienti per governare in autonomia, la palla passerà in mano a chi sarà in grado di parlare a sinistra (Andrea Orlando) e al centro (Dario Franceschini), almeno per salvare il salvabile. Orlando e Franceschini che, tra l’altro, sono stati i più strenui sostenitori di una riforma elettorale che favorisse le coalizioni invece che le liste. Quel Rosatellum che – è ormai convinzione diffusa – è stato un gigantesco suicidio politico.

Il secondo scenario è la palude. Il Pd non sfonda ma non affonda. Grazie alla logica del voto utile (e, perché no, all’argine rappresentato a sinistra da Giuliano Pisapia e, forse, Laura Boldrini) ottiene un numero sufficiente di collegi che gli consenta di diventare il primo gruppo parlamentare, pur non essendo la prima forza a livello percentuale. In quel caso sarà ancora Renzi a dare le carte e provare a fare un governo con chi ci sta. Uno scenario che, però, prevede anche il fallimento delle trattative e il ritorno alle urne. È pensando a questo epilogo che le varie “riserve della Repubblica”, Paolo Gentiloni in primis, ma anche gli stessi Minniti e Delrio, si terranno relativamente in disparte in campagna elettorale. Consapevoli del fatto che potrebbero rimanere al governo ancora per qualche mese e che al turno successivo potrebbe toccare a loro.

C’è poi un terzo scenario, che in questo momento in pochi sembrano considerare, riassumibile così: «E se stessimo tutti sottovalutando Renzi?». Nel Pd c’è chi, al di là dell’ottimismo d’ordinanza, crede davvero nel colpo a sorpresa. «Cosa successe nel 2013? Bersani aveva già vinto le elezioni e invece sappiamo come è andata. E se succedesse la stessa cosa con la destra?». L’idea di questo piccolo ma resistente nocciolo duro renziano è che, davanti alla scheda elettorale, quando ci sarà da decidere a chi affidare le sorti del Paese, gli elettori non si fideranno del salto all’indietro di Berlusconi/Lega o del salto nel buio di Di Maio/Grillo. E sceglieranno il “male minore”, ossia il Pd di Renzi. Certo, non è ciò che il segretario del Pd aveva immaginato quando sognava un futuro da rockstar della politica, ma una percentuale che si avvicinasse al 30% vorrebbe dire arrivare primi non solo in Parlamento ma anche nel Paese. E sarebbe sufficiente per parlare di vittoria. In quel caso il carro, che ora sembra così scricchiolante, verrebbe per l’ennesima volta preso d’assalto.

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