È ora di dirselo, nella musica la democrazia ha rotto il cazzo

Uno vale uno. Se non sappiamo tutti fare tutto c'è un motivo. Questo vale soprattutto in musica dove, fraintendendo la lezione del punk, si perde la qualità della specializzazione e la fatica della gavetta in nome dell'urgenza e del narcisismo

La democrazia ha rotto il cazzo.

Niente di più lontano da un mondo ideale, checché se ne dica. Perché l’idea che tutti siamo uguali, e soprattutto che tutti abbiamo diritto/dovere di dire la nostra su tutto non solo non risponde al vero, ma sta generando più mostri che le lingue biforcute in The Strain 4. Ecco, diciamo che se volessimo farci un’idea apocalittica sull’oggi non sarebbe necessario spararsi una dei nuovi episodi di Black Mirror, basterebbe farsi un giro sui social e leggere come chicchessia si senta di colpo esperto di vaccini quanto di politica internazionale, per non dire di quegli argomenti così poco scientifici e scientificizzabili come le varie forme d’arte.

Se tutti siamo stati (o siamo) allenatori, medici, esperti di politica, figuriamoci se non siamo anche critici musicali, televisivi, letterari o critici d’arte. No, scusate, dell’arte, sia pittura, scultura o arti figurative in genere non frega niente a nessuno, ed è almeno dai tempi della famosa scena in cui Alberto Sordi e sua moglie Erminia si siedono in un museo di arte contemporanea e vengono confusi per un’opera d’arte che ridacchiare della incomprensibilità di detta arte è diventato fuori moda, superato a sinistra dal situazionismo dell’arte contemporanea stessa.

La democrazia ha rotto il cazzo, quindi.

Su questo siamo tutti d’accordo. Soprattutto nel mondo delle arti, dove la percezione che “uno vale uno” si trova spesso a cozzare con il narcisismo di quell’uno che poi, magicamente, si trova a considerarsi molto più degli altri, sostenuto dall’amore incondizionato dei suoi fan, che invece, si ritengono di valere esattamente come chi ha attaccato il loro idolo.

Ma il discorso è molto più complesso. Non riguarda solo artisti e critici, ci mancherebbe altro. L’uno vale uno è come l’infiltrazione dell’acqua, non lo fermi e ti accorgi della sua presenza troppo tardi, quando una mattina scendi dal letto e ti ritrovi con le ciabatte intrise d’acqua.

Andiamo con ordine. O quantomeno proviamoci.

Sono ormai diversi anni che l’idea di professione è tragicamente venuto meno. Un tempo c’erano le specializzazioni. Prendiamo il mondo della musica, che è quello dove chi scrive, specializzandosi, si è fatto un nome, andando a confrontarsi negli anni con altre professioni, costruendo una credibilità e ottenendo un riconoscimento fondato sul rispetto da parte della comunità degli addetti ai lavori, a partire dagli editori per arrivare agli artisti e ai discografici. C’erano i cantanti, ovviamente. Spesso erano interpreti, per cui al lavoro con loro e per loro c’erano degli autori, compositori e parolieri. A lavorare con gli interpreti nella scelta delle canzoni c’erano i discografici, nelle figure degli A&R, che starebbe per Artistico & Repertorio, come dire, coloro che si occupano delle nuove canzoni e anche del repertorio. Questo per quel che riguarda la parte del mercato, per quel che riguarda l’artista, quindi diciamo serenamente la parte che punta più verso l’alto, o che verso l’alto dovrebbe guardare (ma si parla di artisti, quindi diamo per scontato che sia così), magari non necessariamente pensando solo alle vendite, ci sono i produttori artistici, i manager, i consiglieri.

Un tempo c’erano le specializzazioni. Prendiamo il mondo della musica, che è quello dove chi scrive, specializzandosi, si è fatto un nome, andando a confrontarsi negli anni con altre professioni, costruendo una credibilità e ottenendo un riconoscimento fondato sul rispetto da parte della comunità degli addetti ai lavori, a partire dagli editori per arrivare agli artisti e ai discografici

Una volta identificati i brani subentrano altre figure, ad affiancare cantanti e produttori artistici, nello specifico gli arrangiatori, che sono coloro che rivestono di suoni i brani e gli regalano un mondo sonoro, quindi i musicisti, e per la parte relativa all’incisione, gli ingegneri del suono, i fonici. Una volta incisa la canzone la palla passa alla casa discografica, che si trova in necessità di rendere le canzoni fruibili, magari sincronizzandole con qualche pubblicità o qualche film, così da renderle non solo più familiari per gli ascoltatori, ma anche per fare cassa. Poi ci sono gli uffici stampa, che devono agevolare il rapporto tra gli artisti e la stampa.

E poi arrivano i promoter, coloro che organizzano i tour, interagendo con gli impresari geolocalizzati in giro per l’Italia. I promoter interagiscono con lo staff degli artisti, manager in testa, e spesso si coordinano con i discografici, perché avere singoli in rotazione radiofonica mentre c’è un tour in corso, per dire, aiuta non poco.

Insomma, c’erano mestieri vari. Parecchi. E c’erano specializzazioni. Tante.

La gente studiava per arrivare ad avere una professionalità chiara, e faceva la gavetta, affiancando professionisti affermati prima di potersi permettere in prima persona di svolgere una determinata mansione.

Poi, suppongo, qualcuno ha frainteso la lezione del punk, magari traviato dall’arrivo e dall’attecchimento del rap, e ha pensato che certi passaggi della filiera si potevano pure saltare.

Lo sapete, tagliando con la falce, ché questo non è un saggio sulla storia della musica contemporanea, ma un articolo contro la democrazia, i punk erano artisti che si vedevano in necessità di approcciare la musica anche senza avere le capacità tecniche per farlo, stando almeno ai canoni preesistenti, nello specifico quelli ultratecnici del progressive rock. L’urgenza batteva la perizia, e in alcuni casi anche il talento, di qui l’esplosione del punk, capace come pochi altri generi prima di intercettare un malessere diffuso tra certe classi sociali. Che poi il punk sia in realtà stata, almeno in una sua certa deriva, un puro caso di marketing cinico e chirurgico è altra faccenda, perché la percezione della stragrande maggioranza del suo pubblico, così come degli stessi artefici del fenomeno, ci credettero senza se e senza ma.

La gente studiava per arrivare ad avere una professionalità chiara, e faceva la gavetta, affiancando professionisti affermati prima di potersi permettere in prima persona di svolgere una determinata mansione. Poi, suppongo, qualcuno ha frainteso la lezione del punk, magari traviato dall’arrivo e dall’attecchimento del rap, e ha pensato che certi passaggi della filiera si potevano pure saltare

Il problema sta però tutto in quell’urgenza, e anche nel fatto che certi miracoli non possono (né dovrebbero necessariamente) ripetersi. Però col punk, e poi col rap, che del punk poteva forse essere parente stretto per l’approccio da non musicisti degli attori in campo, ma non lo è affatto stato per quel che riguarda il rifiuto del talento (anzi, il rap è sostanzialmente nato proprio sulla voglia dei protagonisti di rimarcare il proprio talento contrapponendolo a quello degli altri), si è ingenerata questa errata credenza che chiunque avesse qualcosa da dire poteva prendere un microfono o uno strumento e dirlo. Di pari passo, dalle fanzine per i critici musicali, alle neonate label indipendenti per la discografia, si sono cominciate a mescolare le carte anche per le altre figure, del resto Malcolm McLaren, che del punk inglese è stato decisamente attore principale, nasceva come commesso di un negozio di vestiti stravaganti di King’s Road, non certo come discografico o artista.

Arrivando all’oggi, saltando quindi a grandi falcate il passato remoto e quello prossimo, la rete ha decisamente contribuito a peggiorare la situazione. Attenzione, non si leggano queste parole con intendo antriprogresso. Non parlo della rete in sé, dove del resto mi state leggendo, Dio la preservi e la faccia espandere, parlo della rete in te, che per il solo fatto di avere modo di dire qualcosa automaticamente pensi che il tuo dire abbia necessariamente un valore assoluto e che il tuo poterlo dire faccia di te un commentatore autorevole, al pari di chi, magari, per poter dire la propria con competenza ha studiato, e anche parecchio.

Uno vale uno, come slogan, non l’hanno inventato gli UK Subs, né tanto meno io.

Uno non vale uno, mi spiace. Non sappiamo tutti fare tutto. Tu che stai per commentare risentito questo articolo, avendo riconosciuto in uno dei personaggi qui descritto il tuo idolo, poi, non sai davvero fare un cazzo, rassegnati. Uno non vale uno.

Un interprete non deve necessariamente saper scrivere e comporre. Un fonico non deve necessariamente saper fare il produttore, o l’arrangiatore, figuriamoci un cantante. E via discorrendo. Se chiami tuo fratello, la tua fidanzata o il tipo che vendeva le caldarroste all’angolo sotto casa tua, non è detto che questi sappiano fare i vostri manager, i vostri promoter o i vostri uffici stampa. Anzi, ci sono ottime probabilità che, qualsiasi incarico gli affidiate, lo faccia male, molto male, perché da una parte c’è il vostro affetto che vi impedirà di dirgli che la scelta fatta di ingaggiarlo/a è stato un errore gravissimo, dall’altro la troppa vicinanza da parte di lui/lei che gli/le impedirà di dirvi che siete voi a fare una cagata dietro l’altra. Se la figura dello Yes Man ha fatto danni epocali, non solo nel campo della musica, gli Yes Man legati in qualche modo da vincoli di parentela, amicizia o amore sono la vera Apocalisse, quella con cavalieri, le schiere con le trombe e la Madonna che schiaccia la testa del serpente.

Se sei un cantante, rilassati e canta. Lascia che a scrivere e comporre sia chi lo sa fare, ha studiato per farlo, ha visto tante canzoni finire nel cestino prima di vederle timidamente pubblicare. Lascia che sia un produttore a produrre, uno che ci capisce di musica e di mercato, perché non è che saper cantare significhi anche diventare geni del mercato

Cioè, potrà mai qualcuno che va a letto con qualcun altro avere una qualche obiettività sul suo lavoro?

Dai, non scherziamo.

E potrà mai uno che ha un talento artistico, e che non sia un Prince, saper fare tutto ma proprio tutto, manco fosse l’incarnazione dello spirito di FICO?

Se sei un cantante, rilassati e canta. Lascia che a scrivere e comporre sia chi lo sa fare, ha studiato per farlo, ha visto tante canzoni finire nel cestino prima di vederle timidamente pubblicare. Lascia che sia un produttore a produrre, uno che ci capisce di musica e di mercato, perché non è che saper cantare significhi anche diventare geni del mercato. Lascia che sia un manager a lavorare per te. Non la tua fidanzata, tuo fratello o quello con cui andavi a giocare a calcio da piccolo. Insomma, fai il tuo e non allargarti. Per contro, se sei un artista sarai sensibile a questo, a criticarti non sarà il macellaio del supermercato, ma un critico musicale che avrà studiato per farlo, non necessariamente all’Università della Vita, sia bene inteso, e che pubblichi per un editore che gli riconoscerà la sua professionalità e contribuirà a renderla credibile.

Poi, chiaro, siamo nel 2018, tu che sei un artista contemporaneo lo manderai a cagare in un nanosecondo su tutti i social, aizzandogli contro i tuoi fan che tenderanno a sminuirne il mestiere al grido di “se sei un critico devi accettare le critiche”. Per non dire di chi ti chiederà perché se un cantante non ti piace lo ascolti e lo critichi invece di ascoltare qualcun altro e fare critiche costruttive.

Ecco, se la democrazia ha rotto il cazzo, le critiche costruttive e la pretesa che le critiche lo siano hanno preso i cocci del cazzo e ne hanno fatto poltiglia, spargendone i resti nel deserto. Non provate a reclamarla con chi ha scritto questo articolo o essere paragonati a un cavallo che affoga imbarcando acqua dal buco del culo vi sembrerà una fine auspicabile. Parola di lupetto.

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