Antonio Infantino, leader storico de “I Tarantolati di Tricarico”, gruppo di Musica popolare è morto la scorsa notte all’età di 74 anni. Una strana figura la sua. Apparentemente legato alla musica tradizionale (valorizzato tra l’altro da Vinicio Capossela nel suo festival), ma in pratica legato all’avanguardia. Infantino ha, nei fatti, inventato una falsa musica tradizionale, mischiando elementi popolari, trance, senso figurativo del ritmo. Agganciando tutto ai capisaldi della cultura mediterranea: ritualità e paganesimo. Riproponiamo qui un racconto-intervista fatto qualche anno fa da Bruno Giurato per Il Foglio
T’aspetti lo sciamano e t’arriva il gentleman. Qualche anno fa il primo incontro con Antonio Infantino fu quasi traumatico. Si capitò in mezzo a un concerto su una spiaggia calabrisi, c’erano circa duecento persone che ballavano, anzi scavavano nella sabbia a forza di gambe. Sul palco Infantino aveva l’aria del signore della trance, o appunto dello sciamano. Capelli e barba lunghi e bianchi, occhiali scuri, ieratico sulla seggiola con in mano una chitarra, circondato da femmine ballanti e da maschi tambureggianti. Fu un’esperienza particolare in termini di dancefloor, da allora ogni altro dancefloor sembra il ballo del qua qua. “Fimmani schietti e giuvanotti. Aviti bontà. Faciti rota!” imponeva l’Infantino, e quelli obbedivano. In mezzo al ritmo infinito di tarantella lui, venerando e terribile, recitava filastrocche in italiano e in lucano. “Il terzo gatto non fu/allora chi fu? ‘A gatt’ Mammona Mammona Mammona” oppure: “Tre amici tengo/ tre spade tengo/ tre alberi van tagliati e il dolor deve passare”. Una specie di Ettore Petrolini (“Pulecenella teneve nu galle/ tutt’e jiorna ci iva a cavalle”) ma con la violenza di tamburi insoliti. Era accompagnato infatti da una grande parata di zuchi (lo zuco in calabrese, “cupa cupa” in Lucania, “putipù” o “caccavella” a Napoli, “kakkabos” in greco antico, “sambomba” in Spagna, è un pentolone con un pezzo di canna che fuoriesce in verticale dalla pelle che ne copre la parte superiore, si tiene tra le gambe, si suona strofinando la canna con gesto allusivo, ed emette un borbottio in due quarti, una specie di trrum trrum). Contento della scoperta telefonai al cugino Sasà Fragomeli, e senza dirgli niente gli misi Avola di Infantino. Qualche secondo di silenzio e poi la domanda: “Ti buchi, parente?”.
Per farla breve dal primo approccio Infantino era da immaginare tra il santone new age e certi suonatori popolari, ruvido, taciturno o afasico. Invece al tavolo di un bar romano nel Testaccio il sopradetto sciamano risulta un conversator cortese. Rispetto a qualche anno fa ha tagliato i capelli, ha accorciato la barba. Parla svelto. Beve pure la cedrata Tassoni. T’aspetti lo sciamano e ti ritrovi un bel gentiluomo del Sud.
Una cosa singolare: la tarantella di Infantino non è la tarantella tradizionale di Campania, Calabria o Sicilia, e nemmeno la pizzica salentina o garganica. La tarantella di Infantino l’ha inventata Infantino, è fatta di pezzetti presi da varie tradizioni meridionali. Una filastrocca di qua, una melodia di là, sull’onnipresente ritmo. E’ una invenzione quasi coloristica o figurativa che nondimeno risulta plausibile, e scatena il pubblico dei dancefloor (dimenticavo, dancefloor pare voglia dire pista da ballo). Nel 2003 il suo Tarantella Tarantata ha battuto Britney Spears nella classifica delle discoteche americane. Infantino è di Tricarico, provincia di Matera (il suo gruppo storico si chiama Tarantolati di Tricarico, e come simboli ha i tamburi, l’acquasantiera e il fiasco di vino; da qualche anno Infantino ha un nuovo gruppo, I Baccanti), classe 1944. Nel 1966 Fernanda Pivano gli fece pubblicare da Feltrinelli un libro di poesie: “I denti cariati e la patria” (“Perché tutti al paese mio –cioè nella mia patria- c’avevano questo cazzo di problema dei denti cariati”) e fu l’occasione per fuggire dal paese. Il Nebbia Club a Milano, il Folkstudio a Roma. Subito Nanni Ricordi gli fece incidere un album. “Ho fatto il Sessantotto prima del Sessantotto” cioè nel Sessantasette. “Ero arrivato a Milano da Nanni Ricordi, avevo visto il cartellone della pubblicità della Saclà, c’era Rabagliati con una corona di sottaceti. Allora, visto che era il periodo della pop art, pigliai la coroncina di una Madonna e me la misi in testa. Mi trovavo insieme a Enzo del Re, gli comprai una giacca a fiori e una bombetta che dipinsi di viola. La polizia ci fermò immediatamente. Ci fecero fare ventiquattr’ore di prigione alla Caserma Fatebenefratelli, quella di Pinelli. C’era un’acustica meravigliosa in quella cella. Continuavo a cantare “da nu moment’all’atr i’ escio paccio e nun so manco pecché”.
La tarantella di Infantino non è la tarantella tradizionale di Campania, Calabria o Sicilia, e nemmeno la pizzica salentina o garganica. La tarantella di Infantino l’ha inventata Infantino, è fatta di pezzetti presi da varie tradizioni meridionali. Una filastrocca di qua, una melodia di là, sull’onnipresente ritmo
Ho capito, è tutto quasi regolare. T’aspetti lo sciamano e t’arriva l’avanguardista sessantasettino. Dopo la laurea in architettura a Firenze (tesi su “spazio naturale, artificiale, a n dimensioni”) Infantino insegnò arte dei giardini in quella università. E perché arte dei giardini? “E’ chiaro, no? Mio padre e mio nonno erano contadini. Mio padre insegnava anche francese, ma ancora oggi, a novantacinque anni, zappa la terra. Comunque io il Sessantotto l’ho fatto non per studiare di meno, per studiare di più l’ho fatto. Mica a lezione insegnavo Bandiera Rossa”. E l’ambiente universitario era favorevole? “Macché, in consiglio di facoltà l’ex moglie di Valdo Spini mi faceva i chiodi. Un giorno mi fecero piangere. Salutai e me ne andai in Brasile” In Brasile? “Sì, per sei anni. D’estate tornavo in Italia per fare concerti, d’inverno lavoravo lì come architetto”. T’aspetti lo sciamano e t’arriva l’architetto. “Lavoravo per un gruppo di ebrei ricchissimi, feci la progettazione di un complesso turistico tipo Costa Smeralda, a Nord di San Paolo. Si chiama Ubatuba. Non ho voluto farlo come le città romane o come New York, con le strade dritte, con le stradine curve invece, sul modello di Gerusalemme o di Siena”.
Stradine curve, pianta irregolare. Più o meno il contrario di certa architettura di oggi, modellata secondo la geometria del suo luogo simbolo: il centro commerciale. I centri commerciali sono i templi di oggi, e a volte propiziano riti, quelli sì neopagani, piuttosto violenti: l’anno scorso all’inagurazione di una Unicoop a Empoli ci furono vari feriti tra i clienti che si accapigliavano per entrare.
Infantino precisa che nei paesini del Sud Italia, dopo l’imbiancatura rituale alle case nel periodo di Pasqua si faceva “l’arricciatura” sulla parte bassa delle pareti, con sassolini di fiume messi insieme alla calce. “Davano pennellate a macchie irregolari. Perché il Diavolo per fare il maleficio deve sapere quante sono le macchie, così come deve conoscere il numero di capelli in testa. Le irregolarità servivano contro il Male”.
La differenza tra lo sciamano e il mistico è che il mistico ha il senso del rito, della ruota, del tempo
Ecco ecco, si arriva al dunque, alla sostanza del ballo, all’ontologia dello zuco, la cosmologia tarantolata. T’aspetti lo sciamano e giustamente t’arriva il mistico. “La differenza tra lo sciamano e il mistico è che il mistico ha il senso del rito, della ruota, del tempo” argomenta Infantino. “Tu sei calabrese? Bene, bene, la tarantella calabrese è più vicina alla tradizione, perché è a ruota, ha una forma circolare. E la tarantella, in termini di forma musicale accademica, è un canone in fuga circolare. Il linguista Giovanni Semerano spiega che il percorso singolare si indica con la sillaba “Tar”. Questo “Tar” si trova in molte culture italiche, celtiche, mediterranee, orientali, sotto forma di nomi di dei e nomi di luoghi”. Quindi non è vero che la tarantella deriva dalla tarantola o da Taranto, semmai il contrario? “Ecco, sì, il contrario. Il Mar Piccolo a Taranto ha forma circolare”. E c’è anche il mar di Tarantasia, che è il nome medievale delle paludi tra Piacenza e Lecco, e la val de Tarantaise che ai tempi di San Bernardo di Chiaravalle era l´Alta val d´Isère.
L’immagine e il movimento circolare hanno riempito i sensi e i cervelli di tutta l’antichità per cui chi scrive non insisterà sugli antichi filosofi. Resta il fatto che i vasi greci e italici sono pieni di figure di ruote, danza a ruota, opposti che convergono. E che la tarantella è un ballo di corteggiamento e contemporaneamente un duello coi pugnali, anche questi ultimi sono opposti che convergono. Il quintuplo Cd/Dvd di Infantino, intitolato “Anthology of taranta & tarantella” raccoglie abbastanza materiale sull’argomento. Tra i vari esempi di tarantelle ci sono raffigurazioni pittoriche antiche montate assieme a filmati di danzatori popolari. In effetti le figure sono identiche.
Poi c’è un filmato con Achille Bonito Oliva che balla la tarantella sul palco di Infantino in modo financo coerente, e che a noialtri scatena la voglia di vedere Bonito Oliva in uno stilizzatissimo (per carità) “ballu c’a scherma” al coltello, stavolta con Francesco Bonami.
Ma la cosa più importante di tutte pare sia il salto, danzereccio e anche filosofico. “Come nel ragionamento c’è l’epoché, la sospensione del giudizio, così nel ballo del Sud c’è il salto” dichiara Infantino, e continua: “il salto è il paradosso trascendente”. Insomma, per tenere il filo del discorso, la tarantella sarebbe non la dialettica ma il conflitto amoroso del pensiero. E la purificazione del ballo e della musica sarebbe l’unica forma vera di catarsi, a dispetto di quel che ne dice Aristotile nella Poetica. La teoria di Aristotile omette di dire che la tragedia era un organismo di costumi, canto, scenografia. E omette di dire che il fine della tragedia era religioso e rituale. Aristotile, insomma, omette le uova per la frittata catartica. Invece la cultura popolare non omette, piuttosto mette in scena la vera catarsi, con gli ingredienti omessi da Aristotile. Ecco le sacre rappresentazioni, le processioni, la musica i rumori e la tarantella. Cuocciono a fuoco vivo vita e arte, mondo e teatro, anima e forme.
La teoria di Aristotile omette di dire che la tragedia era un organismo di costumi, canto, scenografia. E omette di dire che il fine della tragedia era religioso e rituale. Aristotile, insomma, omette le uova per la frittata catartica. Invece la cultura popolare non omette, piuttosto mette in scena la vera catarsi, con gli ingredienti omessi da Aristotile
Vabbò, dopo l’anima e le forme s’impone una discesa dalle sfere teoriche. Le fanciulle col velo che ballano sul palco con Infantino? Niente da fare: “Il velo rappresenta il disvelamento della verità, la a-letheia, il non-nascondimento. Pensa alle donne col velo negli affreschi della villa dei misteri a Pompei. Sto girando un documentario su questo. La villa dei misteri è un esempio magnifico di percorso orfico di iniziazione. Oppure pensa al Cristo velato nella cappella dei Sansevero a Napoli. Le ferite, i muscoli, le vene del Cristo morto si notano perché sono coperte dal velo, e anche le pieghe del velo hanno un ritmo”. Tutto tornerebbe, se non altro perché Giuseppe Sanmartino, lo scultore del Cristo velato, aveva sempre lavorato come presepista.
E con lo sciamano qui presente si finisce a chiacchierare del nuovo lavoro musical-teatrale in preparazione ad Augusta Raurica, in Svizzera. Per la messa in scena Infantino sta usando l’”Onomastikon” di Giulio Polluce, lessicografo greco del I secolo. Ma qui si va troppo sul filologico. “Infantino, parliamo di suo zio potatore”. E lui: “avevo uno zio potatore analfabeta. Una volta sua moglie aveva ospiti di riguardo, e non sapeva cosa offrirgli. Lui le ha detto: “non gli offrire niente, il niente stai sicuro che non se l’hanno mai mangiato” E vabbò, t’ aspetti lo sciamano e ti viene Parmenide. Nientedimeno.