Erano tutti felici quando nel 1928 uscì l’Oxford English Dictionary, la più grande opera sulla lingua inglese, dopo un lavoro durato 70 anni. Buonumore facile da comprendere, perché il percorso per realizzarlo aveva visto avvicendarsi disastri su disastri, con tanto di parole scomparse e fogli fantasma. La fine delle fatiche coronava quasi un secolo di inadempienze e avventatezze.
La storia dell’ OED è un catalogo di tutte le disgrazie possibili: segnata da ritardi, mesi di confusione, disorganizzazione, errori, tragedie. L’avvicendarsi di direttori diversi, con conseguenti modifiche editoriali e nuovi schemi organizzativi, ha provocato danni di ogni genere. In cantiere dall’inizio del XIX secolo, ha visto la parvenza di un ordine nel 1879, quando al timone è salito il barbuto James Murray, con il suo metodo draconiano.
Fino a quel momento era tutto nel caos. Gli uffici, pur lavorando con impegno, non riuscivano (un esempio per tutti) a venire a capo delle cosiddette “quotation slip”, cioè striscioline di carta piene di frasi ricopiate da libri il cui scopo era fornire esempi per tutte le accezioni di ogni parola. Venivano scritte da volontari e poi inviate all’ufficio centrale, qui un solerte linguista le avrebbe esaminate, una per una, scegliendo le migliori per pregnanza e completezza. Un processo certosino e ad alto rischio di confusione: ogni giorno ne arrivavano a migliaia, l’ufficio centrale ne veniva sommerso e centinaia venivano perdute.
Alcune vennero ritrovate, anni dopo, ammassate in valigie e scatoloni in cantina, in mezzo alle ragnatele e ai topi. Per 12 anni sono sparite tutte le parole che cominciavano con “Pa”, per essere riscoperte a County Canavan, in Irlanda (come ci erano finite?), usate come innesco per il fuoco. Altre, quella della “G”, quasi finirono nel fuoco. Nel 1879 venne ritrovata l’intera sezione della “H” in Italia (anche qui: come hanno fatto?).
Per salvare la baracca ci volle il pugno di ferro di Murray. Impose un rigido sistema di classificazione, costruì un nuovo edificio, lo Scriptorium (una sorta di capanno degli attrezzi pieno di nicchie e colombaie per organizzare tutte le strisce e le citazioni necessarie) e mise tutti al lavoro. I risultati si videro subito: nel 1888 uscì il primo volume, con le lettere A e B. Un successo. Tranne per un particolare: mancava una parola, “bondmaid” (termine del 1600 per indicare la “ragazza schiava”. Murray pensò a uno scherzo. Poi controllò e vide che era vero. Quasi gli venne un colpo.
Negli anni successivi le nuove edizioni ritornarono sulla questione, ricompresero la parola e andarono avanti, fino ad arrivare al 1928, quando le 414.825 parole della lingua inglese, catalogate e spiegate, erano tutte lì. Ma Murray era rimasto traumatizzato: nel 1901, incredulo, scriveva: “Nessuno, tra le 30 persone che hanno seguito il lavoro nei suoi diversi stadi tra manoscritto e stampa ha notato l’omissione. Un fenomeno inspiegabile. Con la nostra organizzazione minuta, poi, si sarebbe detto impossibile”. Non ci credeva ancora, non ci avrebbe mai creduto. Del resto, va capito: erano lontani gli anni in cui l’OED avrebbe, per scelta, deciso di tralasciare alcune parole desuete per inserire, ad esempio, youthquake e covfefe.