I dieci giorni più pazzi del movimento più pazzo del mondo cominciano il 7 gennaio, alla premiazione dei 75esimi Golden Globes.
Tutti i partecipanti sono vestiti di nero per manifestare il loro sostegno alle vittime di molestie sessuali; eppure, mentre Hollywood si veste a lutto per solidarizzare con le donne, sul web altre donne – le attrici che hanno scelto di non vestirsi di nero – vengono insultate e umiliate da alcune femministe #metoo per via del colore del loro abito, alla faccia del principio secondo cui una donna deve essere libera di vestirsi come le pare.
Pochi giorni dopo i Globes, si comincia a pensare al 21 gennaio, primo anniversario della Marcia delle Donne, l’appuntamento che un anno fa aveva radunato in piazza folle oceaniche di donne – e di uomini – preoccupati da Donald Trump e dalla sua filosofia del “grab them by the pussy”.
Ma ecco che cominciano i guai: l’11 gennaio Phoebe Hopps, presidente dell’associazione “Women in March – Michigan”, comunica la sua rinuncia ad indossare il “pussy hat”, il simpatico cappellino rosa simbolo della protesta dell’anno scorso. Alcune femministe sostengono infatti che quel colore, il rosa, sia esso stesso il frutto di un pregiudizio maschile e che il cappellino, quindi, rinforzi uno stereotipo.
Alle preoccupazioni del Michigan si aggiungono quelle provenienti dalla Florida. Qui il cappellino è accusato di confermare un’equazione sessista, non tanto per il colore quanto per il nome: chiamare il cappellino “pussy”, cioè vagina, vuol dire affermare che una donna non sia nient’altro che una vagina. Altro che simpatico: quell’infingardo pussy hat sarebbe in realtà un cavallo di Troia del più bieco maschilismo.
Il post non fa in tempo a diventare virale che il “pussy hat” è definitivamente tumulato da LaShawn Erby, femminista afroamericana di Black Lives Matter, che su Free Press lo accusa pure di essere razzista.
I genitali di donne afroamericane (ma anche di transgender e persone “non-binary”, cioè di sessualità “non binaria”, come si dice oggi) non sono di colore rosa, quantomeno non di quel rosa. Per questo il cappellino è “un grande problema”, a cui la Erby dedicherà gran parte del discorso che sta preparando per la ricorrenza.
Dopo due giorni di serrato dibattito, spunta la mediazione: cappellini di bicolori per manifestare così, allo stesso tempo, la propria solidarietà sia alla causa femminista che a quella afroamericana.
Il pussy hat, il capppellino rosa-vagina che si vuole usare per solidarizzare con le molestate è stato contestato tra le altre dalle attiviste di colore: I genitali di donne nere (ma anche di transgender e persone “non-binary”, cioè di sessualità “non binaria”, come si dice oggi) non sono di colore rosa, quantomeno non di quel rosa
Intanto, la quotidiana accusa di molestie sessuali viene mossa nei confronti niente meno che di James Franco.
Ora: immaginare James Franco costretto a molestare qualcuno per guadagnarsi un rapporto sessuale è come immaginare Berlusconi costretto all’elemosina in metropolitana per comprarsi un panino. Eppure il copione segue il solito canovaccio: un gruppo di mezze attrici, mezze figuranti, accusano sui giornali un volto illustre di molestie sessuali accadute in passato; tali molestie, mai denunciate quando accaddero, non sono – come ancora racconta qualche anima bella da noi in Italia – “violenze sessuali” e nemmeno ricatti alla Weinstein; quanto piuttosto una serie di atti perfettamente consenzienti che però, dopo anni, vengono riconsiderati come sgraditi, o addirittura causa di stress e traumi insormontabili.
Il caso di Franco non fa eccezione: una delle accusatrici racconta di aver avuto una storia con l’attore nel 2016 e di essersi appartata con lui in auto; a quel punto, Franco avrebbe chiesto ed ottenuto un rapporto orale, a quella che – a tutti gli effetti – era la sua amante. Tuttavia, oggi la donna afferma che quel rapporto non sia stato il frutto di una libera scelta, ma forzato dalla “dinamica di potere sbilanciata” (“the power dynamic was off”) che c’era trai due, lui attore famoso, lei semi-sconosciuta, e pertanto debba essere qualificato come una molestia. La stessa cosa vale per un’altra accusatrice che, pur avendo firmato un regolare contratto per recitare in una scena di nudo anni fa, oggi ritiene quel compenso da lei sottoscritto “troppo basso” e identifica – come fosse un copione già scritto – la dinamica di potere sbilanciata tra lei e Franco come causa del suo iniziale consenso. Un caso del genere in cui fantasiose calunnie vengono contrabbandate come molestie dovrebbe generare indignazione: in primis tra chi ha a cuore la causa di chi le molestie o le violenze le ha subite davvero.
Ma al Quartier Generale della Polizia Morale del mondo, il New York Times, non la pensano così: un evento in onore di Franco viene annullato, l’attore viene dato in pasto ai forconi dei social, e ora rischia di essere buttato fuori dai SAG Awards, i premi annuali di categoria.
Sulla scena irrompe allora Liam Neeson, che prova – cautamente – a far ragionare tutti, osservando come il #metoo stia leggermente passando di segno; ma non si fa in tempo a ridicolizzarlo per bene, che ecco esplodere la bomba-Ansari.
Casi come quello di Franco e Ansari, in cui fantasiose calunnie vengono contrabbandate come molestie dovrebbe generare indignazione: in primis tra chi ha a cuore la causa di chi le molestie
Il sito femminista “Babe” – noto per le sue importanti battaglie, come quella a favore della decisione della maggiorata Amber Rose di ridursi il seno – pubblica un articolo di 3 mila parole in cui una ragazza anonima accusa il comico, fresco vincitore del Golden Globe, della stessa identica cosa di cui era stato accusato James Franco. Un rapporto sessuale che, rivisitato a posteriori nella moviola mentale della donna, si trasforma da consenziente a non-consenziente o, meglio, non-completamente-consenziente.
È vero, lei è andata a casa di Ansari, e poi a cena, e poi di nuovo a casa sua, e si, si è spogliata, e ci sono stati atti sessuali durante i quali lei non ha mai, neppure una volta, pronunciato la parola “no”; ma il comico non ha fatto attenzione al “linguaggio del corpo”, che invece secondo la donna era chiarissimo, e quindi si è trattato di molestie.
Apriti cielo. Immediatamente, Ansari viene “metooizzato” come si conviene, subendo il tipico linciaggio-social dove si chiede a gran voce la revoca del Golden Globe appena vinto. Tuttavia, stavolta succede qualcosa di diverso.
L’Atlantic, poi il Washington Post, poi addirittura il New York Times si schierano a difesa del comico, prendendosela con “la vittima” usando toni di un’inedita durezza, criticando specialmente la sua scelta di rimanere anonima.
Perché questa incredibile disparità di giudizio, questa diversità di trattamento sesquipedale tra Ansari e Franco, o tra il giovane comico e Louis C.K., crocefisso anche sulla base di un’accusa anonima?
Il problema è che il protagonista di “Master of None” non è solo un attore di grande successo: la sua storia di immigrato di seconda generazione è stata letteralmente adottata dai media liberal che si oppongono a Donald Trump. La comicità di Ansari, piuttosto innocua nella forma e nella sostanza – non tocca mai, per esempio, il livello di ambiguità tipico di un Louis C.K. – è caricata di significato politico, e salutata come “straordinaria” per la capacità di “raccontare le minoranze”.Fa nulla che nella seconda stagione di “Master of None” ci sia una protagonista femminile rappresentata secondo i più insopportabili stereotipi sulle donne italiane (“è fantastica, e sa anche fare bene la pasta!” dice tutto soddisfatto il buon Aziz: se avesse detto di una ragazza afroamericana “è fantastica, e sa anche fare bene il pollo fritto”, le afroamericane lo avrebbero accoltellato); Ansari è stato fatto diventare un simbolo incredibilmente funzionale alla narrazione liberal, e con i simboli – come si sa – bisogna andarci piano.
Non perché le accuse non stiano evidentemente in piedi (è anche il caso di Franco) o perché la fonte sia anonima (lo ha fatto lo stesso New York Times con un’accusatrice di Louis C.K.); ma perché gettare nella polvere un attore indiano, salutato fino al giorno prima come icona dell’integrazione, può prestare il fianco a strumentalizzazioni politiche, assai contro-producenti nel contesto generale.
Tuttavia, purtroppo per i giornaloni, il #metoo ha smesso da un pezzo di essere etero-diretto, alimentandosi di vita propria tramite blog e profili social forcaioli fino al parossismo: e così non solo la caccia allo stregone è proseguita, ma i media a sinistra del Times, come il Guardian o il solito HuffPost, hanno preso la palla al balzo, e agitando lo scalpo del comico indiano, provano ad accreditarsi come nuovo organo di stampa ufficiale del movimento.
Partito come movimento necessario, il #metoo è diventato – più velocemente che in una puntata di Black Mirror – un sistema morale e giudiziario parallelo, grazie al quale si consumano partite di potere che con le donne e i loro diritti non hanno nulla a che fare
Il Golem virtuale, insomma, non risponde più al suo creatore. E mentre reazionari e conservatori si sfregano le mani, il problema non è la differenza tra “avance” e “molestia” al centro della lettera della Deneuve, perche’ come si vede quelle di Franco e di Ansari non rientrano in nessuna delle due categorie, ne’ che si debba “rispettare il movimento ma dare la parola alla giustizia” come in tanti, democristianamente, ripetono da noi. Per informazioni chiedere infatti a Woody Allen, assolto due volte dall’accusa di aver molestato la figlia, eppure trascinato definitivamente all’inferno con “un’intervista bomba” di Dylan Farrow alla CBS, ovviamente diventata virale.
Non contano le indagini, le sentenze, non conta nemmeno che l’altro figlio adottivo, Moses Farrow, confermi la versione del padre. Attrici che a lui devono tutto lo ripudiano, altre chiedono scusa per aver lavorato con lui.
È emerso per caso qualche fatto nuovo, qualche dettaglio inedito? No, i fatti raccontati sono gli stessi di venticinque anni fa, quelli che due inchieste diverse avevano ritenuto inconsistenti. Gli stessi, insomma, di cui le attrici erano perfettamente a conoscenza quando lavorarono con Allen.
A cambiare, in un gigantesco falò delle ipocrisie, è piuttosto la necessità di queste donne di compiacere il Golem, la bolla virtuale che della giustizia reale se ne frega, per timore di subire il trattamento che hanno subito le donne che al Golden Globes non si sono vestite nero e tutti quelli che, in questi mesi, ad ogni lattitudine, si sono azzardati a dissentire.
Con il sacrificio di Allen, insomma, si chiude un cerchio. Partito come movimento necessario, il #metoo è diventato – più velocemente che in una puntata di Black Mirror – un sistema morale e giudiziario parallelo, grazie al quale si consumano partite di potere che con le donne e i loro diritti non hanno nulla a che fare, se non nella pervicacia con cui le donne stesse vengono declassate al rango di clava, buono per prendersi vendette a lungo attese, o per superare nelle vendite o nei click il giornale concorrente.
Esattamente il contrario di quello che le donne, e la società intera, avrebbero bisogno oggi, in un mondo governato da Donald Trump.