La “rivoluzione dei sacchetti” indigna un esiguo numero di italiani, anche se nella vostra bolla vi sembra non si parli d’altro. Non fatevi ingannare, abbiamo priorità migliori: al centro dell’interesse di tutti, in questi giorni, non ci sono gli emendamenti sulle sporte del banco frutta, ma i ponti. Quelli figurati. Quelli che, unendo giorni feriali e giorni festivi, arrotondano le vacanze per eccesso, allungandole.
Alzi la mano chi non sta incrociando calendari e calcolatrici per scoprire quanto tempo riuscirà a stare lontano dal lavoro, dopo l’annuncio a reti unificate: si apre un anno favorevole all’aggancio delle feste comandate. Ciascun giornale propone i suoi conti (e li piazza, da tre giorni, tra i pezzi in evidenza) e tutti concordano sulla rilevazione di massima: prendendo solo dieci giorni di ferie, se ne guadagneranno ben ventisei. Siate accorti nella distribuzione: tre giorni tra il 25 aprile (mercoledì) e il Primo Maggio (martedì), vi tengono a casa per una settimana; a Ferragosto (mercoledì), prendete due e guadagnate cinque; a Natale (lunedì), prendete quattro e guadagnate dieci.
La Repubblica ha inserito il suo vacanzometro nella sezione “Esperto Lavoro” e tanto basterebbe a far cantare vittoria sullo schiavismo trasfigurato, scintillante, irriconoscibile dello smart working (lavorate quando volete, dove volete) e del capitalismo amoroso (il welfare aziendale virtuoso che offre ai dipendenti maggiordomi, nidi e campi da golf, di modo che vivano meglio in ufficio che a casa propria): gli italiani continuano a distinguere tra vita e lavoro, a preferire casa propria all’azienda, a cercare modi legali di marinare il dovere. È un’ ottima notizia, segnala una vitalità resiliente e una relazione equilibrata con le distinzioni.
Basta con lo schiavismo trasfigurato, scintillante, irriconoscibile dello smart working (lavorate quando volete, dove volete) e del capitalismo amoroso (il welfare aziendale virtuoso che offre ai dipendenti tavoli da ping pong): gli italiani continuano a distinguere tra vita e lavoro
L’Italia non è un paese per lavoratori, dirà qualcuno. Ed è vero: l’Italia è un paese per festaioli. Festa e lavoro, però, non sono inconciliabili, né tantomeno rappresentano o comportano l’una il sabotaggio dell’altro. Sono, invece, propedeutici l’una all’altro. Roma non fu costruita in un giorno, dice un vecchio proverbio sulla tenacia. Da quello che ci racconta la storia dei mores latini, verrebbe anche da aggiungere che fu perché il calendario romano era zeppo di feste (il nostro, in confronto, è la tabella di marcia di un campo di lavoro forzato).
In verità, tra Consualia, Lupercalia, Saturnalia, Quirinalia, Agonalia (l’elenco è lunghissimo), gli antichi romani costruirono l’impero dei fasti. Nel 380, quando Teodosio I impose il cristianesimo come religione di Stato e abolì le feste pagane, il grosso – di cui ancora godiamo – era stato fatto. Il tempo della festa, persino preponderante rispetto al tempo del lavoro, non impedì a Roma di diventare la capitale del mondo.
Duemila anni e passa più tardi, sebbene lo spirito del tempo abbia criminalizzato l’inoperosità e le sue celebrazioni (ultimo, divertente esempio: l’allenatore del Napoli, Maurizio Sarri ha dichiarato che il periodo peggiore per giocare a calcio è quello natalizio perché “le feste distraggono”), l’Italia che resiste ancora s’ingegna a unire feriali e festivi, sogna il mare, il sollazzo, l’ozio. Nel 2004, Berlusconi propose di ridurre i ponti senza abolire le festività, collocandole, anno per anno, in modo che fosse impossibile allungare le vacanze più del previsto: “nei fatti si salta un giorno di lavoro, con una incidenza sul prodotto interno del paese”, disse (nella medesima occasione assicurò anche che il ponte sullo Stretto sarebbe stato inaugurato entro il 2011). Esattamente un anno fa, i giornali scrissero che il 2017 sarebbe stato l’anno dei ponti. Lo è stato. Ed è anche stato l’anno della ripresa economica. Tirate voi le somme. Poi, godetevele.