STRASBURGO – Schiacciata tra le elezioni tedesche e quelle italiane. Ignorata dal Consiglio europeo e osteggiata dal blocco dei Paesi di Visegrad. La riforma del regolamento di Dublino sul diritto d’asilo, approvata dall’Europarlamento lo scorso novembre, si è ormai arenata tra i corridoi di Bruxelles. Un testo rivoluzionario, che elimina l’obbligo di chiedere asilo nel primo Paese d’arrivo – Italia e Grecia in primis – destinato però ad accumularsi tra i dossier dimenticati sulla scrivania del Consiglio. Dove gli Stati membri – questa è la sensazione diffusa tra gli eurodeputati – sembrano tutt’altro che intenzionati a spartirsi una volta per tutte la gestione dei flussi di immigrati secondo il metodo della ripartizione in quote.
A essere contrari non sono solo i quattro di Visegrad, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, affiancati dall’Austria. Ora anche la Germania di Angela Merkel, sostenitrice della riforma sin dagli albori, mentre è alla ricerca di un equilibrio di coalizione, mette le mani avanti. Il testo approvato a Strasburgo prevede il ricollocamento dei migranti nei Paesi in cui sia già presente qualcuno con cui si abbia un legame di parentela. Ed è proprio questo quello che spaventa Berlino. In una nota del ministero dell’Interno tedesco, citata da Der Spiegel, si legge: «Se ognuna degli oltre 1,4 milioni di persone che hanno fatto richiesta d’asilo in Germania dal 2015 diventasse una “anchor person” per i nuovi arrivi in Europa, ci ritroveremmo ad affrontare numeri enormi». E il nuovo accordo di coalizione Cdu-Csu-Spd prevede non più di mille ricongiungimenti al mese, con un numero massimo di richiedenti asilo compreso tra 180mila e 220mila all’anno.
Il nuovo semestre bulgaro di presidenze del Consiglio Ue, appena inaugurato, ha già fatto sapere di voler portare avanti la riforma. La Bulgaria, confinante con la Turchia, è uno dei primi Paesi d’arrivo dei migranti. «Ho un ottimo dialogo con i colleghi di Visegrad», ha detto il primo ministro bulgaro Boyko Borissov a Strasburgo. «Abbiamo vissuto tutti sotto il patto di Varsavia. Sappiamo cosa vuole dire povertà e deprivazione, fare la fila per avere le banane a Natale. Grazie alla solidarietà europea, ora siamo molto più concorrenziali, abbiamo infrastrutture e scuole migliori. Quando parlo ai colleghi di Visegrad, dico loro: “Riconosciamo il nostro debito di gratitudine verso l’Europa”. Come in ogni famiglia, anche in Europa ci sono delle dispute. Ma ci sono regole che abbiamo sottoscritto e dobbiamo rispettarle».
Ho un ottimo dialogo con i colleghi di Visegrad. Abbiamo vissuto tutti sotto il patto di Varsavia. Sappiamo cosa vuole dire povertà e deprivazione, fare la fila per avere le banane a Natale. Grazie alla solidarietà europea, ora siamo molto più concorrenziali, abbiamo infrastrutture e scuole migliori. Quando parlo ai colleghi di Visegrad, dico loro: “Riconosciamo il nostro debito di gratitudine verso l’Europa”.
Il mese indicato da Borissov per far ripartire il dialogo sulla riforma del diritto d’asilo è maggio, quando però ormai la presidenza sarà quasi arrivata alla fine. A seguire, si insedierà l’Austria. Ma il nuovo governo di Vienna, posizionato molto a destra sulle vicende dell’immigrazione, fa pensare che la discussione finirà di nuovo in un vicolo cieco. Soprattutto ora che la Germania si è irrigidita. «La Germania ha parzialmente ottenuto il suo obiettivo di ridurre i flussi, facendo pressione per sottoscrivere l’accordo con la Turchia», spiega l’eurodeputata Elly Schlein, relatrice ombra della riforma al Parlamento per i Socialisti e democratici. «La Turchia prima di allora non era mai stato considerato un Paese terzo sicuro da nessuno Stato membro. Improvvisamente nel marzo 2016 lo diventa per questa intesa, che tra l’altro non è stata portata nemmeno al vaglio del Parlamento europeo, come dovrebbe avvenire per i trattati internazionali».
Con la rotta balcanica bloccata ai confini turchi, e l’accordo Italia-Libia che ha portato a una riduzione degli sbarchi nel canale di Sicilia, la questione immigrazione sembra scomparsa dall’agenda europea. E anche il governo italiano, con le elezioni alle porte, preferisce prendersela comoda. A “battere i pugni in Europa” prima di marzo non ci andrà nessuno dei candidati a Palazzo Chigi. Tantomeno i Cinque stelle, che dopo aver partecipato attivamente al negoziato della riforma, all’ultimo momento hanno votato contro. Un cambio di rotta coinciso con l’arrivo alla leadership di Luigi Di Maio, che sul fronte immigrazione apre anche all’elettorato di destra.
«Il problema maggiore resta il blocco di Visegrad, ma dietro Visegrad si nascondono molti altri Paesi a cui fa comodo che la cosa rimanga in questi termini», spiega Schlein. «Francia in primis». Emmauel Macron, più propenso ai respingimenti che all’accoglienza, ha appena firmato un nuovo patto di frontiera con il Regno Unito. E qualche mese fa ha subito rimandato al mittente l’ipotesi di aprire anche i suoi porti agli sbarchi dei migranti.
Il problema maggiore resta il blocco di Visegrad, ma dietro Visegrad si nascondono molti altri Paesi a cui fa comodo che la cosa rimanga in questi termini. Francia in primis.
D’altro canto il Consiglio, non avendo alcun obbligo di deliberare entro una certa scadenza, non ha discusso né la proposta di riforma della Commissione, arrivata a maggio 2016, tantomeno il dossier votato dal Parlamento. Un mese dopo il voto, il presidente Donald Tusk se ne uscì addirittura con un documento che definiva il sistema delle quote come «divisivo», aggiungendo che avrebbe dato tempo fino a giugno prima di proporre delle alternative. L’uscita fece andare su tutte le furie il commissario per le migrazioni Dimitri Avramopoulos. E in una cena informale anche Merkel, il premier belga Charles Michel e quello olandese Mark Rutte non risparmiarono critiche a Tusk.
Da quello che è trapelato finora dal Consiglio, dove la discussione è a porte chiuse, sono state per lo più presentate proposte alternative, per evitare i ricollocamenti obbligatori. Inclusa l’ipotesi, arrivata dai Paesi di Visegrad, di creare dei capannoni ai confini dei primi Paesi d’accesso. Che tradotto significa: vi diamo una mano, ma gli immigrati che arrivano in Italia, Grecia e Bulgaria da noi non entrano.
«Abbiamo fatto un lavoro straordinario in un negoziato delicatissimo», ribadisce Elly Schlein. «La cancellazione del criterio del primo Paese d’accesso non era un risultato scontato in un clima di crisi sull’immigrazione come questo. Eppure il Parlamento ha votato a stragrande maggioranza, dalla Gue fino ai popolari europei, dalla Spinelli alla Mussolini. Quello che manca ora è la volontà politica di trovare un’intesa in Consiglio». E con l’immigrazione diventata tema di consenso elettorale, per i capi di governo ogni elezione è un pretesto per rimandare la discussione e allontanare il sistema di distribuzione per quote.
Basta guardare i numeri. Sui 160mila migranti che gli Stati membri si erano impegnati a ricollocare nel 2015 su tutto il territorio europeo, ne sono stati ricollocati solo trentamila. Il Canada nel 2016 in quattro mesi ne ha reinsediati 40mila sul suo territorio.
E ora anche la Commissione, che pure aveva presentato una proposta di riforma meno ambiziosa (il ricollocamento scatterebbe solo dopo una certa soglia di arrivi), sembra aver rinunciato a difendere davanti al Consiglio il proprio testo, aprendo a proposte alternative al ricollocamento. La solidarietà e la ripartizione delle responsabilità in tema di asilo resteranno a lungo solo concetti impressi sulla carta dei trattati europei.