Ci sono i festival tipo Cannes e Venezia, con le passerelle e i paparazzi, i divi con lo smoking e le dive con l’abito da sogno, distanti duemila metri dalla realtà. E poi c’è un festival che pur tenendosi a duemila metri d’altitudine, in una sperduta cittadina di montagna dello Utah dove non si beve né si mangia a scrocco (e infatti di giornalisti italiani non se ne vede manco uno), racconta la realtà come nessun altro.
Andare al Sundance Film Festival vuol dire uscire da un cinema e ritrovarsi a vagare per le strade con la neve fino alle ginocchia, in pieno stato confusionale, chiedendosi come si è potuto vivere senza essere stati a conoscenza di quello che si è appena visto, non vedendo l’ora di condividere le informazioni apprese. Già, perché il piatto forte del festival da qualche tempo non sono i film ma i documentari, logica conseguenza di un mondo dove la realtà non solo supera ma ormai doppia la fantasia.
Anche quest’anno il Sundance sfida i pregiudizi, e volando sopra la stupidità del politicamente corretto mostra all’America come ci siano temi molto più urgenti delle fantomatiche fake-news di Putin o delle abitudini sessuali di James Franco e Aziz Ansari.
Ecco i cinque titoli più interessanti e politicizzati che abbiamo visto, con la speranza che vengano distribuiti in Europa per poterli rivedere.
The Cleaners (Moritz Riesewieck, Hans Block)
Manila, Filippine. È qui, ai confini del mondo, che in grattacieli in stile Gotham City hanno sede delle società informatiche in cui nessuno, finora, era riuscito ad avere accesso. Sono le aziende dove lavorano “i ripulitori”, quelle ingaggiate dai big della Silicon Valley per fare il lavoro sporco, dove i dipendenti passano dodici ore al giorno con un compito preciso: decidere cosa possiamo condividere sui social e cosa debba essere censurato.
“The Cleaners” è il documentario più attuale che possa essere concepito, perché dà voce per la prima volta a quegli individui con cui tutti abbiamo a che fare ogni giorno, e che hanno trasformato la società contemporanea nell’incubo distopico che ben conosciamo.
Ragazzi di vent’anni (che hanno parlato solo a garanzia dell’anonimato) a cui viene dato un elenco di regole sommarie, incaricati di stabilire i confini della libertà di espressione del genere umano per pochi centinaia di dollari al mese; ragazzi che spesso non hanno idea della lingua o della cultura del paese da cui provengono i contenuti segnalati, eppure chiamati a prendere una decisione nel tempo massimo di 8 secondi.
La scelta è semplice: bottone destro – “delete” – e il contenuto viene cancellato per sempre; oppure bottone sinistro – “ignore” – e il contenuto viene giudicato idoneo. Il tutto da ripetere, in media, 20 mila volte nel corso della giornata, con ritmi tanto massacranti che a volte hanno condotto al suicidio.
C’è una ragazza timorata di Dio, che quando non è al lavoro passa due ore della giornata in Chiesa. La sua è una missione sacra – dice – e il suo compito è purificare la rete dal peccato. A lei tocca la scelta se censurare o ignorare una caricatura di Donald Trump, nudo e con il pistolino di fuori. È l’opera di una famosa artista di Brooklyn, condivisa diciannovemila volte nelle ultime sei ore. “Timorata” guarda in camera: confessa di non conoscere bene la politica di Trump, ma di sapere benissimo che un pistolino è un pistolino e quindi va censurato perché pornografico.
Delete! Un istante dopo, diciannovemila persone non possono più fruire di un’opera d’arte.
Poi ecco “Giustiziere”: anche lui ventenne, dice di sentirsi “un supereroe” al servizio del Bene per sconfiggere il Male. Deve decidere se ignorare o meno l’iconica foto scattata durante la guerra in Vietnam, quella in bianco e nero con i bambini nudi ustionati e dietro di loro i soldati americani.
Incalzato dai film-makers, “Giustiziere” confessa che lui, il Vietnam, a malapena lo sa piazzare sulla mappa: ma un bambino nudo è pedofilia e quindi la scelta non può che essere una sola: delete!
Anche grazie a interviste ad esperti delle Nazioni Unite e a ex “dirigenti pentiti” di Facebook e Google, “The Cleaners” mostra una dopo l’altra le contraddizioni di un’industria completamente sfuggita di mano, la cui regolamentazione è una priorità per il futuro del genere umano. Sconvolgente.
The Sentence (Rudy Valdez)
Fino al 2014, negli Stati Uniti, 36 mila persone erano in galera per un reato noto come “the girlfriend problem”.
Per la legge americana, infatti, essere a conoscenza di un crimine senza denunciarlo costituisce il reato di “Conspiracy” (l’equivalente della nostra associazione a delinquere) le cui pene sono direttamente proporzionate all’entità del crimine taciuto. Il principio, discutibile di per sé, diventa paradossale per i reati di droga: se una donna scopre che il partner traffica stupefacenti e non corre a fare la spia finisce dritta in galera, senza che nessuno, neppure un giudice pietoso, possa fare qualcosa.
Proprio quanto accaduto a Cindy Valdez, che nel 2008 riceve una sentenza di condanna a 15 anni di galera per non aver denunciato l’ex fidanzato spacciatore, deceduto sei anni prima. Un lasso di tempo durante il quale Rudy ha cambiato vita: si è sposata, ha avuto tre bambine, eppure è costretta a separarsene per entrare in carcere.
Il documentario, realizzato dal fratello spesso con mezzi di fortuna, segue cronologicamente l’evoluzione della vicenda come una sorta di tragico “Boyhood”: le telefonate tra le bambine e la madre in carcere sono filmate nel corso degli anni, e lo spettatore osserva Autumn, la figlia più grande, passare dall’infanzia all’adolescenza, vedendo la madre non più di una volta ogni sei mesi.
Molti film hanno provato a raccontare cosa significhi perdere ingiustamente la libertà: nessuno è riuscito a trasmettere la sensazione che si prova quando Cindy, nel 2014, viene finalmente rilasciata, grazie a un provvedimento di clemenza voluto da Obama che libera 1.600 persone in galera per il “girlfriend problem”.
Una storia a lieto fine, che però accende i riflettori su una stortura gigantesca: nonostante Repubblicani e Democratici abbiano ripetuto più volte di voler cambiare la Legge, nessuno ha ancora fatto nulla e le altre 34.400 persone – in larga parte donne – sono ancora in carcere.
Dark Money (Kimberly Reed)
Nel 2010 la Corte Suprema Americana emette una sentenza shock: corporation e multinazionali possono liberamente finanziare le campagne elettorali dei politici, senza alcun limite e senza l’obbligo, da parte del politico di turno, di rivelare da dove prenda i soldi.
Si innesta, in questo modo, un circolo vizioso: le corporation finanziano i politici che si impegnano a tenere conto dei loro interessi, contribuendo così a farle diventare ancora più ricche e ad avere sempre più denaro per comprarsi altri politici.
È un fenomeno trasversale, che riguarda sia i Democratici che i Repubblicani, e che solleva alcune domande fondamentali: che differenza c’è tra i “dark money” e una tangente? E con questa segretezza, chi garantisce che la provenienza dei soldi non sia illecita?
Per dare un’idea di quanto i “dark money” influiscano oggi nella politica americana, basta pensare che nelle elezioni del 2016 il 40% dei soldi ricevuti da Trump e dalla Clinton sono da considerarsi come tali; e le previsioni per quelle del 2020 parlano di una cifra pari al 70%.
Attraverso la storia dello Stato del Montana, dove un gruppo di politici bipartisan sono riusciti a bloccare l’entrata in vigore della legge, il documentario mostra il vero significato della parola “establishment”, constatando come per la democrazia e lo stato di diritto non potrebbero esistere tempi più difficili.
The Price of Everything (Nathaniel Kahn)
Che cos’è un’opera d’arte oggi? E come se ne stabilisce il valore? Sono le domande a cui il documentario prova a dare una risposta oggettiva.
Tuttavia, nel corso dell’inchiesta, che mostra per la prima volta alcune tra le collezioni private più impressionanti del mondo (come quella del newyorkese Stefan Edlis, che si è costruito in salotto un museo personale da 2 miliardi di dollari), le domande iniziali servono da mero pretesto per portare alla luce gli aspetti più oscuri dell’arte contemporanea.
L’arrivo sulla scena dei nuovi miliardari russi, arabi e cinesi, con potenza finanziaria praticamente illimitata ha fatto salire vertiginosamente la domanda d’arte negli ultimi vent’anni; e ciò ha instaurato un meccanismo di causa effetto dalle conseguenze assai discutibili sul piano etico. Non solo il valore delle opere è andato a moltiplicarsi, facendo guadagnare profitti giganteschi a galleristi, case d’aste e, ovviamente, agli stessi artisti; non solo è stata promossa al rango d’opera d’arte roba che, per bocca degli esperti, anni fa non sarebbe stata neppure quotata; ma si è posta con forza la questione dei musei.
È giusto che un’opera di Leonardo Da Vinci sia venduta a un privato per 400 milioni di dollari, sottraendola per sempre al genere umano? Oppure un’opera simile deve restare in un museo, in quanto patrimonio di tutta l’Umanità? Ma in questo caso, chi decide quali si e quali no? In base all’opinione o al gusto di chi? Certo non in base al valore di mercato, perché se il tutto si riducesse a una questione di prezzo allora saremmo punto a capo.
Questioni da porre con forza, soprattutto quando si ascolta la responsabile newyorkese di Sotheby’s dire che “i musei sono i cimiteri dove l’arte muore” e che l’unico modo per valorizzare un’opera d’arte è “venderla alla cifra più alta possibile e toglierla dalla circolazione”.
La risposta migliore su quale sia il senso ultimo dell’arte contemporanea arriva però da un anonimo critico, anche lui newyorkese. “L’arte è come la Religione”, dice. “Ha valore solo se ci credi”.
The Oslo Diaries (Mor Loushy)
Nel 1992 i rapporti tra Palestina ed Israele sono ai minimi storici.
Mentre i morti si accumulano, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat danno disposizioni affinché un gruppo di diplomatici israeliani e palestinesi si incontri segretamente a Oslo per iniziare una trattativa all’apparenza impossibile.
“The Oslo Diaries” è la ricostruzione di quella trattativa, negata per anni dalle parti in causa, raccontata oggi dalla voce dei protagonisti con immagini inedite in cui sono mostrati spezzoni delle riunioni.
Prodotto dagli israeliani, il documentario brilla per l’equidistanza messa in campo: straordinario l’aneddoto raccontato dal diplomatico Daniel Kurtzer, inviato di Bill Clinton, secondo cui israeliani e palestinesi erano soliti litigare alla morte durante le trattative, per poi chiacchierare allegramente nelle pause, sorseggiando un caffè e parlando delle rispettive consorti.
Il meglio lo si vede nella seconda parte quando, dopo la storica stretta di mano di Camp David (frutto proprio di quella trattativa segreta), i reciproci estremisti si scagliano contro i negoziati, armando la mano dei nemici della pace. Sono mostrate, in presa diretta, le reazioni sconcertate dei diplomatici israeliani quando apprendono al telegiornale di un massacro di palestinesi e quelle equivalenti dei diplomatici palestinesi alla notizia di una strage su un bus israeliano.
È in quelle facce smarrite che si coglie il vero significato di ogni attentato terroristico: il bersaglio ultimo non è l’altra fazione ma la propria, e la vita umana è solo un mezzo, usato per forzare la mano dei governanti e costringerli a cambiare rotta.
“The Oslo Diaries” è una visione necessaria: da una parte, fa capire come il fallimento del processo di pace sia stato uno snodo determinante del nostro passato, determinante nel passaggio dall’ottimismo degli anni ’90 al caos del mondo post 11 settembre; dall’altra, mette in guardia sul presente, quello in cui, nel silenzio del mondo, all’estremista di ieri – Netanyahu – è stato consentito di estirpare con il sangue la questione palestinese. Se è vero che la Storia non fa altro che ripetere sé stessa, le conseguenze saranno terribili.