È facile prenderlo in giro, anche se nessuno dicesse “a” sarebbe già di per sé ridicolo: fanno ridere le sue facce, il suo modo di parlare e di vestire, il suo colore di capelli, pettinati in quel modo poi – cotonati come se fossimo nel remake della febbre del sabato sera. Vedi, è facile. È facile pure dire che non è un uomo politico. Ma quale Presidente era già da prima un uomo “politico”? Carter l’uomo delle noccioline? Clinton jazzista? Reagan attore? È questo il bello della politica americana.
“Fire and Fury: inside the Trump White House” del giornalista ormai plurimilionario (si spera) Michael Wolff racconta quello che (forse e in certi momenti) succede dentro la Casa Bianca. Wolff ha scelto di occuparsi soprattutto del Presidente privato: carattere iracondo, manie di persecuzione come quella dello spazzolino: non vuole che nessuno lo tocchi perché ha paura di essere avvelenato (e per questo va a mangiare spesso da McDonald’s). Diagnosi: maniaco. Saddam, in una trasmissione della tv di Stato irachena incitava gli spettatori a curare l’igiene, e a lavarsi i denti tutti i giorni. Un documentario, a partire da quel frame, lo dipingeva come maniaco ossessionato dalla pulizia personale.
Ma torniamo a Trump. Letti separati con la First Lady, aggressivo con i domestici, ama portarsi a letto le donne dei suoi amici, blabla. Di questo si parla nel libro di Wolff. Solo di questo? Non è che si sta prendendo una parte del libro e si sta dicendo che parla solo di questo per nasconderne la sostanza? Non ci pare. Per non parlare dello stile: “comically bad”. È per questo che file e file di persone stanno aspettando di leggerlo, per il gossip. Non c’è niente di male eh, ma sia chiaro, non è un libro guidato da serrate argomentazioni politiche, come non lo sono gli infiniti articoli anti-trumpiani su quasi tutti i giornali e i post su Twitter di quasi tutti gli “intellettuali”. A partire dall’osannato New Yorker che ne ha fatto una questione di principio, una vera e propria linea editoriale. Questo dicono di lui: bugiardo circondato da bugiardi, functionally illiterate (in poche parole analfabeta – quello che diciamo noi ai grillini quando sbagliano le date o un congiuntivo), “intellectually unsound” (come sono poetici, tradotto: scemo). E per questo è stato dichiarato UNFIT FOR THE JOB. Unfit (quanto sense of humor). Ancora dicono, a un anno di distanza, che Trump al governo è inimmaginabile. Ancora non lo immaginano. Almeno, però, definiscono il libro di Wolff e il suo autore (non so se per snobismo ma va bene lo stesso) un late-night comedian che dà sollievo, non un reporter che pensa alla veridicità delle proprie affermazioni. Problema: le argomentazioni mainstream anti-trumpiane non sono argomentazioni, sono rigetto automatico; si sta dietro ai pettegolezzi e al buonismo a basso costo. Di nuovo, il Presidente, è un climax: assorbito da se stesso, impulsivo, privo di empatia, stronzo, pervertito, ma soprattutto non sa le parole dell’inno nazionale – durante le partite di football muove la bocca a caso con la mano sul cuore OMG anatema.
Non è che si sta prendendo una parte del libro e si sta dicendo che parla solo di questo per nasconderne la sostanza? Non ci pare. Per non parlare dello stile: “comically bad”. È per questo che file e file di persone stanno aspettando di leggerlo, per il gossip
Queste invettive da zia acida si convertono in gossip che, per definizione, è sempre in bilico fra vero e falso. Quello che si blatera su Trump, quindi, non sarà mai qualcosa d’incisivo; nello specifico, su certe affermazioni di Wolff ci sono già le smentite su Vox. Se ne riderà (Trump simpatico a qualcuno), ci si indignerà (Trump odiato dalla maggioranza) ma non incideranno. Lui ha subito risposto alle accuse: sono un genio molto stabile. E giù vignette di Trump nelle stalle. Stable vuol dire stabile ma anche stalla. Facile anche questa, no? Quindi, accuse morali, cospirazioni. E tante vignette. Questa è la resistenza, questo è il massimo del dissenso? C’è di meglio. Oltre all’inno e alle stalle. Il sesso. Si fa pisciare in testa da prostitute russe. Tradimento alla patria. Torna con immancabile puntualità l’accusa moralistico-sessuale dell’invettiva politica anglosassone: l’avversario è un pervertito. L’immagine pubblica di Clinton rovinata da una scappatella ne è l’emblema. Di matrice anglosassone ma è arrivata un po’ ovunque, fino a noi. Ricordiamo Berlusconi, rest in peace. C’è una tecnica del colpo di Stato, e c’è una tecnica della delegittimazione moralistica, che però nel caso di Trump mostra trama e ordito lisi fino all’autoparodia. La verità è che chi lo accusa così scade, Trump abbassa il livello dei suoi detrattori. Come Berlusconi ha abbassato il livello degli antiberlusconiani. Ma quando nemmeno il sesso regge più, quando il pubblico ha digerito pure la più impensabile perversione (ripetiamo, letti separati, settant’anni suonati, le donne degli amici esaurite insieme agli amici) diventa solo un pazzo. Adesso sono tutti fissati nel dire che è un pazzo con l’accesso ai codici nucleari, “al bottone del nucleare”, tipo Ottocento, pazzo da internare (!).
“Trump è un orco cattivo quindi non può governare il paese” è uguale ai comunisti che mangiano i bambini, o è peggio, perché lì c’era un odio ideologico, qui siamo ai nervi per i capelli color banana o per qualche sproloquio. Oddio, ha detto “x” allora è Hitler reincarnato con il toupé arancione. Facciamo reductio ad Hitlerum, errori logici su errori logici e mettiamo avanti emotività e retorica.
Nella serie di Spike Lee ambientata a Brooklyn dedicano mezz’ora di puntata ad una canzoncina demenziale anti-Trump pazzo con i codici nucleari sotto mano. Non se ne può più, anche nelle serie lo infilano tipo mantra-lavaggio del cervello. La pericolosità di Trump è riconosciuta dai media ma anche da un folto gruppo di autorevoli psichiatri americani che hanno pubblicato recentemente “The dangerous case of Donald Trump” – senza aver mai scambiato due parole con il Presidente, s’intende. Forse gli psichiatri che hanno studiato a Yale o ad Harvard riescono a fare diagnosi da lontano, diagnosi telepatiche. E possono pure andare contro la regola di Goldwater dell’American Psychiatric Association. Si può fare la figura di chi non sa fare il proprio mestiere, l’essenziale è non essere analfabeti, scemi, o pazzi. Unica perla di lucidità dal New York Times, un articolo di David Brooks (anti-trumpiano) sul declino dell’anti-trumpismo che sta diventando una storiella da reality piena di versioni contrastanti e falsi miti. “Le persone che lasciano la Casa Bianca dopo aver incontrato il Presidente sono sorprese dalla sua affabilità”. Questo è il primo periodo. Ma poi, inoltre, alla fine della fiera, che palle che chi sta al potere dev’essere per forza sobrio sposato senza vizi e sempre composto: un cyborg, un fondamentalista o uno con la pressione bassa. Si dicono progressisti e democratici ma no non va bene è un donnaiolo è avido è pazzo. Va bene il nero ma non va bene il donnaiolo. “Trump è un orco cattivo quindi non può governare il paese” è uguale ai comunisti che mangiano i bambini, o è peggio, perché lì c’era un odio ideologico, qui siamo ai nervi per i capelli color banana o per qualche sproloquio. Oddio, ha detto “x” allora è Hitler reincarnato con il toupé arancione. Facciamo reductio ad Hitlerum, errori logici su errori logici e mettiamo avanti emotività e retorica. Trump è perverso, scemo e pazzo, ma pure troppo pop. Sia mai. La cravatta rossa, che bocche fa, il ditone. Curioso, infine, che il possibile post Trump sia fatto da personaggi più pop di lui, ma liberal proof come Oprah (wtf) o Zuckerberg.