Chissà se nell’ormai lontano 2013 Paolo Gentiloni e Matteo Renzi si sarebbero mai potuti immaginare la situazione in cui, entrambi, versano oggi? Stiamo parlando solo di cinque anni fa, un periodo tutto sommato breve, ma politicamente lunghissimo. Un periodo in cui è successo praticamente di tutto. Compreso un inaspettato quanto insospettabile, ribaltamento delle parti proprio tra Gentiloni e Renzi. Se qualcuno, cinque anni fa, si fosse spinto ad ipotizzare che un giorno il primo sarebbe diventato l’ultima speranza del Pd e il secondo una personalità con il consenso in picchiata, quel qualcuno sarebbe stato preso per pazzo. E invece, alla luce di quanto sta avvenendo in queste ore, sarebbe stato da inserire nella categoria dei visionari della politica.
Nella primavera del 2013, Paolo Gentiloni, sostenuto da Matteo Renzi, si candidò alla primarie del centrosinistra per la corsa a sindaco di Roma. L’allora primo cittadino di Firenze – benché già molto legato a Gentiloni – fece una campagna elettorale molto soft a suo favore, senza esporsi, temendo che un’eventuale sconfitta avrebbe potuto intaccare la sua incontenibile ascesa verso la leadership del Pd. E fece bene, perché l’ex ministro delle Comunicazioni del governo Prodi perse abbastanza rovinosamente quelle primarie, battuto dalla concorrenza di Ignazio Marino (che poi sarebbe diventato sindaco per essere poi defenestrato dal suo stesso partito) e David Sassoli. Gentiloni tornò nelle retrovie, mentre Renzi – complice la non-vittoria di Bersani alle elezioni politiche di quello stesso anno – in breve tempo scalò le gerarchie del Pd, diventandone segretario alla fine di quello stesso anno. Il resto della storia è noto. La decapitazione del governo Letta, la nomina dello stesso Gentiloni alla Farnesina, l’inebriante 40% delle europee, l’azzardo (rivelatosi poi un suicidio) del referendum costituzionale, l’uscita di scena di Renzi e la staffetta a Palazzo Chigi.
È stato un processo lento ma inesorabile, alla fine del quale si può dire con relativa certezza che Paolo Gentiloni sia il vero candidato premier del Partito Democratico
Oggi, più di un anno dopo la decisione di affidare a lui la guida del governo, Paolo Gentiloni è unanimemente riconosciuto come l’ultima vera speranza per evitare quello che potrebbe rivelarsi un disastro elettorale. Dopo settimane di tentennamenti, l’ultimo a prenderne atto è stato lo stesso Renzi, che ha dato un ordine di scuderia ai suoi più fidati collaboratori riassumibile più o meno così: “Puntare tutto su Gentiloni”. Come avevamo già avuto modo di scrivere alcune settimane fa, non c’è stata una vera e propria incoronazione, né tantomeno una lista civetta centrista con il suo nome (come qualcuno era arrivato ad ipotizzare) né alcuna congiura di palazzo. È stato un processo lento ma inesorabile, alla fine del quale si può dire con relativa certezza che Paolo Gentiloni sia il vero candidato premier del Partito Democratico. Di sicuro è quello che ha più possibilità di sedere di nuovo a Palazzo Chigi.
Renzi, alla fine, ha dovuto riconoscere che il gradimento nei suoi confronti è ai minimi storici, mentre quello verso il premier rimane stabile e sopra la media degli altri competitor. “È facile comprenderne i motivi – ci dice un renziano molto legato anche al presidente del Consiglio – Paolo rappresenta, non solo a parole ma con i fatti, quella ‘forza tranquilla’ da lui stesso evocata. Matteo ha capito che l’unico modo per giocarsi le prossime elezioni è contrapporre agli slogan e alle urla dei populisti un profilo di governo serio e credibile”. Un identikit che, in questo momento, coincide con quello del presidente del Consiglio, non con quello del segretario del Pd, che risulta troppo divisivo e compromesso da vicende che, come una goccia cinese, hanno finito per minarne l’immagine pubblica.
Per Renzi è necessario superare la fatidica “quota 25”, o “quota Bersani”, come la chiamano al Nazareno: se il Pd si fermerà sotto il risultato elettorale del 2013, Renzi dovrà prendere atto del proprio fallimento
Schivo, fuori moda, noioso, tutt’altro che presenzialista, quasi mai polemico: è così che Gentiloni ha conquistato la fiducia di molti italiani che si erano stufati del renzismo. Gli stessi risultati dei governi Pd assumono, agli occhi dell’opinione pubblica, un aspetto diverso se a rivendicarli sono Renzi e i renziani oppure Gentiloni. Nel primo caso scattano immediatamente le accuse di arroganza, nel secondo, invece, prevale l’apprezzamento per il tono pacato e realistico.
L’attuale premier – anche grazie al rapporto di ferro che ha costruito con il presidente della Repubblica – è anche uno dei massimi indiziati nel caso in cui le elezioni consegnassero un Parlamento diviso, in cui nessuna delle forze politiche in campo riuscisse a prevalere sull’altra. Proprio per questo, ora, la grande incognita è il suo grado di coinvolgimento nella campagna elettorale del Pd. Mattarella vorrebbe che tenesse un profilo il più istituzionale possibile, Renzi invece ha tutto l’interesse, oggi come oggi, a tirarlo dentro la contesa politica. L’ex sindaco di Firenze, pur avendo ormai preso atto che molto difficilmente tornerà a Palazzo Chigi, non ha intenzione di farsi da parte e, quando sarà il momento, vorrà essere ancora lui a “dare le carte” in quello che potrebbe essere un lungo e tormentato dopo-elezioni. Perché questo succeda, però, è necessario superare la fatidica “quota 25”, o “quota Bersani”, come la chiamano al Nazareno: se il Pd si fermerà sotto il risultato elettorale del 2013, Renzi dovrà prendere atto del proprio fallimento. Se invece, magari trainato proprio da Gentiloni, dovesse andare meglio di cinque anni fa, allora le prospettive per il futuro potrebbero cambiare.
È lo stesso motivo per cui si sta valutando attentamente se inserire il presidente del Consiglio nella battaglia per un collegio uninominale o blindarlo nei listini proporzionali. Anche in questo caso la differenza di vedute è tra chi vede Gentiloni come una riserva della Repubblica (Mattarella) e chi invece lo vede come una riserva del Pd (Renzi). Se il premier non dovesse riuscire a prevalere nel suo collegio, difficilmente potrebbe guidare un governo di larghe intese. Al tempo stesso, il Pd ha bisogno che tutte le sue risorse migliori corrano nei collegi per trainare il voto proporzionale. E, dicono le malelingue, in caso di catastrofe, Renzi avrebbe la possibilità di “vendicarsi” con lo stesso Gentiloni per un’eventuale vittoria nel suo collegio a Firenze e una contemporanea sconfitta del suo (ex) colonnello a Roma. Ma, appunto, sono solo malelingue…