Tratto da LOve. Discorso generale sull’amore, di Fuvio Abbate (La nave di Teseo, 2018)
Teresa e Camillo si frequentano, lei urbanista, lui notaio. O forse no: agli occhi di Teresa Camillo è un amico, punto. Lui invece spera in molto di più, forse ne è anche innamorato, di sicuro immagina d’essere accolto da lei, tra le sue gambe. Vorrebbe che sempre lei, Teresa, lo baciasse, lo riconoscesse come uomo, come maschio, come amante. Quando i conoscenti comuni domandano se tra di loro c’è una relazione in atto con naturale scambio di sesso, lui, Camillo, taglia corto in modo prosaico: “Vi posso dire intanto che assai presto faremo una conferenza stampa congiunta, così saprete.” Una risposta che fa supporre l’imminente ufficializzazione del rapporto. Peccato che quell’incontro pubblico venga puntualmente rimandato.
Teresa innalza una bellezza sabina in attesa del ratto, il viso lungo, il taglio degli occhi netti, come se fossero stati incisi con un’ascia, l’incarnato olivastro, i fianchi pronunciati, le gambe belle come “l’esca dalle lunghe gambe” di cui parla Dylan Thomas in una poesia acquatica. Camillo è stempiato, il colletto della camicia tagliato “alla francese”, la giacca color cammello, tuttavia sui documenti, alla voce connotati, l’ufficiale di stato civile avrebbe segnato “regolari”, modo assai burocratico per indicarne l’insignificanza somatica.
Periodicamente, Teresa e Camillo vanno a fare un week-end insieme in qualche complesso termale tra Toscana e Umbria, dormendo nello stesso letto, “a cucchiaio”, cioè con lui che un po’ la abbraccia da dietro. Peccato che a Camillo, nonostante l’ottimo self control da giovanotto che ha ben frequentato un liceo privato come il Nazareno, gli venga duro, e prova, sia pure blandamente, a spingersi oltre; a quel punto Teresa, accarezzandogli il viso, spezza ogni suo istinto, dicendo: “Dai, dai, Camillo, adesso dormiamo, sii buono.”
La notte di Camillo mostra così le pupille spalancate, la sensazione intermittente d’essere ora un imbecille ora un gran signore, su cui si innesta l’idea dell’attesa, sì, l’uomo, l’amico, il fesso è sicuro che prima o poi Teresa “comprenderà che sono la persona adatta a lei, mi accoglierà”, così pensa Camillo, mai scorato dall’idea che Teresa in verità preferisca dell’altro, che so?, un attaché de presse di colore della Comunità Europea, un assessore ai beni culturali della Costiera Amalfitana, un giovane, uno studente Erasmus bello e dall’incisivo spezzato. La sua perseveranza mi ricorda Sante, sosia venuto un po’ male di Vincent Cassel, superdotato, innamorato di un’amica lesbica, al punto di partire con lei e l’amante di lei per l’India. Un pomeriggio, trovando patetica la sua insistenza sul pezzo, gli domandai da quanto tempo ci stesse a provare, e lui, Sante: “Da nove mesi.” E io: “Non ti senti ridicolo?” E lui ancora: “Mi do tempo ancora nove mesi.” Mi sarebbe piaciuto dirgli che quel suo enorme pene avrebbe reso liete altre ragazze, e non certo Maura che stava con Flaminia, ma sarebbe stato tempo sprecato.
Alla fine, per semplice usura, Teresa e Camillo hanno smesso di frequentarsi, lui si è fidanzato con una collega dello studio legale dal collettino a fiori, lei ha continuato a mostrare il suo profilo netto. Eppure io comprendo in cuor mio l’amarezza di Camillo, la comprendo perché fare l’amore con Teresa è stata tra le cose più straordinarie che ricordi.
Mi piacevano i suoi fianchi, li accarezzavo e chissà perché li chiamavo per nome, una forma di familiarità con il suo corpo, mi piaceva anche vedere dentro il suo sguardo una spirale di sgomento, accadeva sempre mentre stavo dentro di lei, la penetravo, mi sembrava pure che nel sentirla bagnarsi c’era qualcosa di luminescente – meraviglioso lavoro compiuto dalle sue ghiandole del Bartolini che, per chi lo dovesse ignorare, presiedono la lubrificazione della vagina.
Dunque, posso comprendere il senso infinito di privazione di Camillo, così come trovavo crudele il “dai, dai, dormiamo, buono buono” di Teresa. In quelle circostanze, chi custodisce un po’ di amor proprio dovrebbe rivestirsi e andare via, senza una parola di scuse, né possibilmente la sensazione d’essere stato perdente poiché non gli è stata aperta la porta.
Dovrebbe entrare in auto, mettere in moto e ripartire sentendo crescere dentro di sé un senso di pienezza, e intanto, con un gesto netto della mano, strappare dallo specchietto retrovisore il simulacro in pannolenci che Teresa, idealmente, ha messo lì a ciondolare, così come zia Gioconda teneva due omini cinesi di legno.
Lo so per certo che la condotta di Camillo verso se stesso è stata da autentico imbecille, privo di amor proprio, dove perfino il masochismo è un’altra storia, perfino De Sade si vergognerebbe per lui, chissà perché non gliel’ho mai detto, l’avrei messo al riparo dalla sua stupidità, dal suo essere inerme di fronte all’altra che si nega.
So di cosa stiamo parlando, sullo stesso tema ripenso a Fulvia, che era bella come la ragazza francese che pubblicizzava la “Medaglia dell’amore” sotto San Valentino, la festa degli innamorati: capelli ricci di un rosso tiziano, gli omeri in vista fuori dalla maglia di cashmere, così come i polsi, la bocca e lo sguardo meravigliosi e insieme detestabili di chi è certa della propria superiorità nei tuoi confronti, per classe e censo o piuttosto per la convinzione che a dividervi ci sono aoristo, il fatto che lei conosca Peer Gynt di Ibsen e Grieg, mentre tu non vai oltre gli Area di Demetrio Stratos con le copertine disegnate da Gianni Sassi; lei ginnasio e liceo classico, tu licenza media senza latino e poi liceo scientifico.
Fulvia abitava in un complesso residenziale, la Beverly Hills della nostra città. Una sera, l’ennesima della nostra breve frequentazione, guidando la mia Renault 4, sono passato a prenderla, volevo che andassimo insieme a cena, o magari semplicemente a fare due passi in riva al mare. Neppure il tempo di darle un bacio di saluto e già Fulvia mostrava disinteresse per ogni cosa le volessi raccontare: “Scusa, Fulvio, non lo dico per cattiveria, ma proprio non mi interessa.” Ho provato a parlarle di Raymond Queneau e dei suoi Fiori blu o forse di Arrabal e del suo Viva la muerte, da poco visto, e anche in quest’altro caso, accompagnando le parole con un gesto del capo, Fulvia ha chiarito che nulla le interessava, davvero nulla, di ciò che potessi dirle, sembrava infatti che niente potesse colmare il divario tra me e lei, e perfino fra me e suo fratello che suonava la batteria, tra me e la sua razza borghese, nata conoscendo cosa fosse mai, oltre al Peer Gynt, il Concerto per pianoforte e orchestra in Sol maggiore M. 83 di Maurice Ravel.
È stato a quel punto che, trattenendo le lacrime di rabbia e mortificazione, ho frenato bruscamente e dopo un’inversione a U sono tornato davanti al suo cancello, intimandole di scendere. Le ho detto proprio: “Fuori di qui subito, vattene!” Nelle mie pupille s’intuiva un filamento incandescente di determinazione, orgoglio tardivo per i miei limiti, per la mia storia, per i miei antenati, cominciando dal ricordo di me bambino in braccio a zio Franco in divisa di capitano della marina.
È stato a quel punto che ho visto Fulvia trasfigurarsi, sorridermi, compiere il cammino inverso al suo insopportabile, vergognoso contegno iniziale.
Fulvia, dopo avere detto: “No, non voglio andare via”, ha voluto che mi avvicinassi alla sua bocca e prendessi a baciarla o forse è stata proprio lei a venirmi vicino; la protervia era svanita. Fulvia era adesso umanissima, la più naturale e accogliente ragazza che potessi mai incontrare, vincere, condannare a ogni mio desiderio, perfino il più crudele, si accostava a me, portava le mie dita sui suoi seni, sembrava che aspettasse soltanto d’essere trafitta dal mio spillo come farfalla, come insetto, come vedova nera, un po’ come racconta Pitigrilli nel suo Cocaina. Non ho mai più incontrato una ragazza arrendevole come Fulvia quella sera.
Che fosse solo un bisogno masochistico, il suo? O piuttosto Fulvia aveva riconosciuto in me la determinazione a lasciarla cadere, a non stare al suo gioco di miserrimo potere. Che al fondo di tutto, come gli scarabei, alla corazza esterna corrispondesse un’immensa morbidezza, friabilità interna, dunque interiore? Ricordo che a un certo punto ho detto di fare attenzione al finestrino, e lei, volutamente, ha dondolato la testa battendo sui deflettori dell’auto, e intanto, guardandomi negli occhi impassibile, diceva: “Come, come hai detto?” Se era una sfida, in questo caso, l’aveva vinta lei.
Chissà se Camillo, in un ripostiglio dei rimpianti, custodisce ancora le bende del dolore che Teresa gli ha recato, se le sue ferite si sono mai richiuse al pensiero di quel delittuoso, notturno, termale: “Dai, dai, dormiamo.” Peccato non potergli donare il racconto della mia notte con Fulvia per risarcirlo.