Caro Cesare Cremonini, siamo tutti Robin (e Batman è triste)

Batman ha tutte le carte per essere un supereroe: bello, ricco, forte. Un vincente nato. Eppure Robin ci prova lo stesso. Non si arrende mai.

Ciao Cesare Cremonini, non vedo perché tu debba starmi a sentire però sono qui. Ho ascoltato la tua nuova canzone, Nessuno vuole essere Robin. L’avevo già sentita nel disco, Possibili Scenari. Come avevo anche già sentito dire da te, in svariate interviste, che questo pezzo tu lo vedi come la nuova Marmellata #25.

Devo dirti la verità, Cesare, a me questa storia che “Nessuno vuole essere Robin” non convince.

Non è che la marmellata mi piaccia. Una volta che esiste la cioccolata, che senso ha fare qualcosa di dolce con la frutta? Come quando vedi quelle paste con metà kiwi sopra. Non ti viene una stretta al cuore? A me sì. È uno spreco.

E allora una volta che esiste Batman, che senso ha Robin?

Eppure secondo me Robin non è un pasticcino con mezzo kiwi sopra. Nemmeno quello con un tondino di banana.

Robin è uno che non c’entra niente con la Robin di How I Met Your Mother. Lei è perfetta. Ha gli occhi verdi, un fisico da paura, è un maschiaccio che fuma i sigari e va negli strip club. Una che non vuole impegnarsi e va in giro a spezzare cuori come fossero pastafrolla. Certo che chiunque vorrebbe essere lei.

Però.

Però, dando una brutale occhiata alla realtà immanente, bisognerebbe un attimo ragionare su questa figura di Robin. L’amico di Batman, dico.

Robin non è uno sfigato. È la quintessenza dello sfigato. Ha un amico schifosamente ricco che, buttacaso, è pure un supereroe. Non perché si sia svegliato una mattina col complesso di Napoleone Bonaparte. No, c’è proprio un segnale ad hoc per lui che si illumina di notte nel cielo, quando c’è un’emergenza. Roba che le emergenze si fanno degli scrupoli ad accadere di giorno perché altrimenti quel segnale lì non brillerebbe abbastanza. Non sarebbe scintillante come merita, da fare invidia alle stelle.

Non dev’essere facile essere amico di uno così, di un tizio che proprio di professione fa invidia alle stelle.

Che poi Robin, oltre ad essere a posto con se stesso al punto da non vivere male questa storia dell’amico supereroe, è uno che si impegna. Si veste pure lui in modo risibile, anche se non è mica Batman. Non ci è proprio nato. Non è il suo. E nessuno glielo chiede. Però via, giallo, rosso e verde fluo. Sgargiante. Quasi una parodia, a ben guardare. Come se facesse un po’ il verso a quell’amico supereroe di nero attillato. Se non puoi batterli, confondili. Oppure deridili. Silenziosamente. Che c’è più gusto.

Devo dirtelo, Cesare: io a Robin un po’ voglio bene. Quantomeno empatizzo.

Perché per quanto Batman sia il supereroe più emotional sulla piazza (poverino è orfano, poverino ha un lato oscuro, poverino da come parla pare gli abbiano fatto una tracheotomia), Robin è quello che magari non ce la fa. Però ci prova. Nella sua peggior tutina aderente e sapendo in partenza che perderà perché nulla può contro l’uomo pipistrello che combatte il crimine nottetempo.

Robin sta sveglio con lui, gli fa da spalla quando potrebbe beatamente dormire, nove volte su dieci finisce nella trappola del nemico di turno e diventa una zavorra. Ma all’emergenza successiva sarà ancora lì, senza vergogna, a riprovarci.

Caspita, se vorrei essere Robin.

Vorrei essere Robin quando mi scade un contratto a tempo determinato e mi tocca dire addio al tipo di vita a cui mi ero ormai abituata. Vorrei essere Robin per dirlo, questo addio, col sorriso. Batman, duro e puro quanto vuoi, pure vincente stando alla giuria demoscopica, non sorride mai.

Vorrei essere Robin quando mi innamoro di qualcuno che nemmeno sa o peggio, sa, e preferirebbe cavarsi gli occhi a mani nude piuttosto di ricambiare il mio sguardo.Vorrei essere Robin per guardarlo lo stesso. Perché a quel punto non avrei mica paura delle emozioni che mi farebbero deragliare davanti a tutti, davanti a lui. Non temerei le calamite che dirottano le mie pupille verso le sue. E nemmeno le conseguenti calamità.

Vorrei essere Robin per avere l’orgoglio cieco, l’ostinata spavalderia di rimanere lì quando le cose non si mettono bene.

Vorrei essere Robin per non morire attendista. Per non rosicare ogni volta che mi pesa di non essere nata ricca, splendida, vincente. Vorrei essere Robin per realizzare che vincenti lo si può diventare, rimanendo in carreggiata. Non importa se con la Batmobile o a bordo di una Fiat Punto grigio topo del ’98. Perché l’avrei costruita io, quella carreggiata.

Ci avrei messo proprio il sudore. E poi l’asfalto. Del resto, a quella storia che se in autostrada vedo tutte le macchine venirmi contro, di muso, sto sbagliando direzione, non ho mai creduto.

Vorrei essere Robin quando non ho un batsegnale che mi dica dove andare. Però ci vado lo stesso. Anche se non ho il numero dieci sulla maglia e l’eventualità di sbagliare un rigore non mi sfiora nemmeno. Perché di certo nessuno lo farebbe tirare a me. Però non mi perdo una partita. Da bordocampo, va bene, ma ci sono.

Perché è questo che fa un eroe, tutti quei “nonostante”. Magari non ha il sale in cucina e la donna che ama gli dice che preferirebbe dormire col cane. Ma lui, l’eroe, non retrocede di un millimetro. Ci crede. Crede che le cose possano cambiare, un giorno. Domani, forse domani, o fra un annetto. Oppure due. E non è un atto di fede, è una filosofia di vita squisitamente pragmatica. Eterno secondo, secondo lui ce la farà. Ed è questo che conta.

Tutto il resto, Batmobile compresa, è un insipido accessorio, qualcosa che ti fa avere l’applauso del pubblico pagante, certo, ma che ti lascia in bocca quel retrogusto da pasticcino con mezzo kiwi sopra.

Ecco perché, Cesare, Batman non sorride mai.

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