I padri nobili Prodi e Veltroni. Il presidente del Consiglio con il tasso di gradimento alle stelle Paolo Gentiloni. Gli apprezzati ministri Minniti e Delrio. L’astro nascente Calenda. Il volto vincente di Zingaretti. Il nemico storico D’Alema insieme agli oppositori interni. Perfino gli ex fedelissimi della ricca Lombardia, Sala e Gori. Sono solo alcuni dei nomi descritti negli ultimi giorni sulla stampa come possibili artefici dell’agguato al renzismo in caso di disfatta elettorale. Ma il nome del congiurato eccellente, quello che veramente può fare male dal 5 marzo in poi, è uno e uno solo: Dario Franceschini. «Solo lui può muovere le truppe vere», dicono ai piani alti del Nazareno. E hanno ragione.
Il ministro dei Beni Culturali, noto alle cronache degli ultimi anni per aver sempre scelto la strada giusta per sé e per i suoi uomini, è considerato l’unico che, a livello di macchina e non solo sui giornali, può spostare davvero gli equilibri nel Pd. Franceschini, negli ultimi tempi, si è messo un po’ in disparte. «E non è una buona notizia – sottolineano fonti vicine al segretario – perché solitamente il suo silenzio preannuncia una tempesta». Anche perché, il fatto che si sia tolto dalle luci dei riflettori non significa affatto che la sua attività, nel sottobosco della politica, si sia fermata. Anzi, secondo i ben informati, è più attiva che mai.
In caso di redde rationem, l’ex segretario dem potrà giocarsi la partita su più fronti, consapevole che nessuna nuova maggioranza nel Pd potrà prescindere da lui. «Franceschini – dicono ancora le fonti del Nazareno – è posizionato molto bene in entrambe le partite che si giocheranno dal 5 marzo in poi: quella del partito e quella del governo». In primo luogo ha ottimi rapporti sia a destra che a sinistra. Con Forza Italia è stato uno dei canali di dialogo per tutta la legislatura e, anche in questi giorni, le cose non sono cambiate. Ha ottimi legami con Leu, dove è sbarcato uno dei suoi uomini di fiducia storici, l’ex portavoce Piero Martino. I rapporti con lo stesso Bersani, con il quale instaurò un lungo sodalizio all’epoca in cui l’ex ministro dello sviluppo economico era segretario del Pd, sono tutt’altro che deteriorati.
Con Mattarella la stima è reciproca e, semmai ve ne fosse bisogno, vista la vicinanza tra i due, un altro stretto collaboratore, oltre che amico personale, di Franceschini, Francesco Saverio Garofani, sta per sbarcare al Colle nelle vesti di consulente, una volta terminata l’esperienza da parlamentare. Benché non sia al top nel toto-governo di queste ore, la figura del ministro della Cultura è, dunque, una di quelle tenute maggiormente in considerazione dal Quirinale.
Renzi conserva una solida maggioranza in Direzione, dove il 70 per cento dei delegati è fedele all’ex premier. Dentro questa percentuale, però, almeno un quinto fa riferimento diretto a Franceschini. E se sommassimo questa fetta al 30 per centro delle minoranze di Orlando ed Emiliano, la maggioranza renziana non sarebbe poi così granitica
Se a livello di rapporti istituzionali e parlamentari, Franceschini non ha rivali, non si può dire lo stesso per gli equilibri interni al Pd. I rapporti con Renzi (che di lui non si è mai veramente fidato) sono andati via via peggiorando nel corso dei mesi, dopo le critiche, giudicate ingenerose, rivolte dallo stesso Franceschini al segretario dopo la batosta del referendum. Nonostante una fragile tregua sia stata siglata in seguito alla riforma elettorale (chiesta e ottenuta, oltre che dal ministro della Cultura, anche dalla minoranza di Andrea Orlando), la “mattanza” renziana sulle liste non ha risparmiato neppure Franceschini. Che però, diversamente da altri, ha almeno salvato il salvabile. Nei gruppi parlamentari, quindi, conserva alcuni uomini forti, che potrebbero tornare utili nell’immediato futuro. Il peso cresce esponenzialmente se si apre il capitolo Direzione Pd, l’organo deputato a prendere le decisioni chiave nel partito. Quello stesso organo, per intenderci, utilizzato da Renzi (appena diventato segretario) come un ariete, per porre fine drasticamente all’esperienza del governo Letta. Fu sotto la spinta della Direzione, anche grazie al determinante apporto di Franceschini, che i gruppi parlamentari (bersaniani) si ritrovarono d’un tratto tutti sul carro renziano.
Questa è una storia passata, è vero. Ora la situazione è un po’ diversa. Renzi conserva una solida maggioranza in Direzione, dove il 70 per cento dei delegati è fedele all’ex premier. Dentro questa percentuale, però, almeno un quinto fa riferimento diretto a Franceschini. E se sommassimo questa fetta al 30 per centro delle minoranze di Orlando ed Emiliano, la maggioranza renziana non sarebbe poi così granitica. «Anche perché – osserva sarcasticamente la fonte del Nazareno – alcune figure che oggi vengono considerati più vicini a Matteo che a Dario, come Rosato, Serracchiani e lo stesso Giacomelli, non ci metterebbero nulla a tornare all’ovile, attratti dal richiamo della grande casa ex-popolare».
Il Franceschini silente, insomma, è tutt’altro che inattivo. Resta sicuramente in prima linea per essere confermato nel ruolo di ministro in un governissimo del presidente, che contribuirebbe fattivamente a formare. E, perché no, anche per il ruolo di segretario di transizione (mansione già ricoperta nel dopo-Veltroni) nel caso in cui la situazione precipitasse.