Nel 2015 sono stati nominati, per mezzo di un bando di gara aperto anche a esperti internazionali, 20 nuovi direttori di altrettante strutture museali italiane. Sette di questi sono stranieri. Apriti cielo: il polverone mediatico ma, soprattutto, giudiziario che ne è scaturito lo abbiamo ancora ben presente. Tuttavia, la sentenza del Consiglio di Stato arrivata qualche giorno fa si accinge a porre fine alla questione. Contrariamente a quanto è stato scritto, nonché twittato da Franceschini, la decisione è, di fatto, una vittoria per i direttori stranieri coinvolti, che con ogni probabilità metterà la parola fine a un problema normativo tipico dei nostri.
Iniziamo dal principio: due persone escluse dall’aggiudicazione hanno impugnato i provvedimenti di nomina dei direttori con specifico riguardo alle gare a cui avevano partecipato: Mantova e Modena da una parte, Paestum, Taranto, Napoli e Reggio Calabria dall’altra. Tra tutti questi, Mantova e Paestum erano stati assegnati a due stranieri, rispettivamente Peter Assmann e Gabriel Zuchtriegel. I motivi di impugnazione, semplificando, erano due: in tutti i casi, la procedura di assegnazione sarebbe stata scorretta. Inoltre, limitatamente ai due direttori stranieri, questi non sarebbero dovuti essere ammessi alla gara poiché non in possesso della nazionalità italiana, che un decreto ancora in vigore (il dPCM n. 171 del 1994) annovera tra i requisiti essenziali per l’accesso alle cariche dirigenziali dell’amministrazione pubblica. Tutte le altre assegnazioni non sono state impugnate e sono scaduti i termini per farlo, con una prima, fondamentale conseguenza: anche se Assmann e Zuchtriegel dovessero essere rimossi per il requisito della cittadinanza, gli altri cinque stranieri resterebbero in ogni caso al loro posto. Quando si parla dell’affaire dei direttori stranieri, si parla solo di questi due. Il problema, semmai, riguarderebbe eventuali nomine future, oppure l’eventualità (remotissima) che il Mibact revochi le altre nomine esercitando il potere di autotutela.
La questione di fondo non è la cattiveria dei Tar, ma la complessità della nostra matassa normativa. I tribunali non hanno fatto altro che sollevare un problema che nè il nostro legislatore né il MIBACT hanno risolto. In breve, il diritto dell’UE sancisce la possibilità per i cittadini europei di lavorare nella pubblica amministrazione degli altri Stati membri. L’ordinamento italiano ha introdotto tale normativa ponendo però, al pari degli altri Stati, un’eccezione: devono essere italiani coloro che svolgono “esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri” (art. 37 del dl 29/1993). In seguito, il dPCM n. 171/1994 interviene e specifica ulteriormente disponendo che devono essere assegnati a italiani anche tutti i “posti dei livelli dirigenziali”, compresi dunque i dirigenti dei musei pubblici.
Da qui deriva l’incertezza: questa specificazione è conforme al diritto UE? Ovvero, tutti i dirigenti pubblici esercitano pubblici poteri oppure no? Se la risposta è no, come sostenuto da una sentenza del Consiglio di Stato lo scorso luglio, perché un dirigente può svolgere semplicemente funzioni tecnico-manageriali, allora il dPCM 171/1994 sta violando la normativa europea, precludendo agli stranieri dei lavori che invece potrebbero svolgere. Se invece si interpreta la funzione del dirigente in ogni caso come un organo esecutivo della pubblica amministrazione, allora il divieto sta in piedi. Secondo i Tar prevale quest’ultima interpretazione.
Confidiamo che l’Adunanza Plenaria risolverà in senso positivo la questione per i nostri direttori. D’altronde, all’estero già si fa così: per citarne alcuni, ci sono dirigenti italiani alla National Gallery di Londra, al Tate di Liverpool e persino al Louvre
Il Consiglio di Stato, qualche giorno fa, ha invece sottolineato l’incertezza del dato normativo. Da un lato, come già accennato, vi è una sentenza del Consiglio stesso che sostiene che la riserva agli italiani di tutti i posti di livello dirigenziale sia contraria al diritto UE, secondo la quale dunque i direttori potrebbero stare dove sono. Tuttavia, i giudici non potevano non sottolineare come questa interpretazione si scontri con un dato normativo piuttosto chiaro e che può essere interpretato in diversi modi. Dunque, come nel caso di qualsiasi conflitto su questioni importanti di diritto, ha giustamente rimesso la decisione all’adunanza plenaria, organo titolato a dare l’interpretazione definitiva.
Il punto centrale è la gran confusione di fondo, nonché l’incapacità, ad esempio, del governo di emanare un nuovo decreto che mettesse chiarezza prima del bando. Sarebbe bastato abrogare, emendare o integrare il 171/1994 per risolvere alla base la questione. Anche perché il risultato è stato paradossale: durante il processo, un’Amministrazione statale (il Mibact) ha chiesto la disapplicazione di un regolamento statale (il dPCM 171) perché contrario al diritto UE. Non poteva, prima di emettere il bando, analizzare i presupposti normativi e mobilitarsi per cambiare le norme che avrebbero causato problemi?
E’ chiaro che poi è difficile innovare con queste basi di partenza. Ma confidiamo che l’Adunanza Plenaria risolverà in senso positivo la questione per i nostri direttori. D’altronde, all’estero già si fa così: per citarne alcuni, ci sono dirigenti italiani alla National Gallery di Londra, al Tate di Liverpool e persino al Louvre.