“Sono d’accordo Berlusconi, se non ci sono le condizioni per governare e dalle urne non uscirà un chiaro vincitore, è meglio tornare alle urne”. Molti dei detrattori di Matteo Renzi hanno colto solo la prima parte di questa sua recente affermazione per coprirlo ulteriormente di contumelie in chiave “Renzusconi”. In realtà, il messaggio politico che il segretario del Pd ha voluto mandare sta tutto nella seconda parte della frase. Semplificando: “Non sono disponibile a fare un governo in ogni caso e l’idea della larghe intese è tutt’altro che scontata”. In poche ore si sono accodati tutti, da Luigi Di Maio e Giorgia Meloni, che si sono affrettati a ribadire che, in caso di stallo, si debba andare subito – cioè a giugno – a nuove elezioni.
È su quel “subito” che si stagliano all’orizzonte i dubbi istituzionali più rilevanti. Il primo a vedere questa ipotesi come fumo negli occhi è Sergio Mattarella. Per vari motivi, che girano tutti intorno ai concetti di stabilità e credibilità internazionale. La preoccupazione del Colle è che, se si tornasse al voto in tempi brevi, la situazione risulterebbe praticamente congelata e lo stallo potrebbe proseguire ancora per molto tempo. Come è successo in Spagna in tempi non sospetti, una ravvicinata ri-chiamata alle urne, non ha cambiato praticamente di una virgola gli equilibri in campo, costringendo poi il Psoe a garantire l’appoggio esterno al governo di Rajoy. C’è poi un altro tema fondamentale: l’Europa, sulla spinta di Macron e della Grosse Koalition che sta nascendo in questi giorni a Berlino, nei prossimi mesi può finalmente cominciare a correre e l’Italia perderebbe solo altro tempo prezioso.
È per questo che Mattarella preferirebbe di gran lunga un governo in grado di fare sostanzialmente due cose: accodarsi a Parigi e Berlino e modificare la legge elettorale in modo che nuove elezioni non si tramutino in un perpetuarsi dell’agonia ma in un’occasione per dare al Paese una maggioranza uniforme e stabile. In questo senso, la sponda ideale per il Quirinale è rappresentata da Paolo Gentiloni, a cui potrebbero essere affidate le chiavi di un nuovo governo, che sia di transizione ma che abbia la possibilità (e quindi anche l’orizzonte temporale) per lavorare con un realistico raggio d’azione. Diciamo almeno di un anno, anche per placare la prevedibilissima bufera finanziaria che potrebbe esplodere tra i mercati nei mesi successivi al voto.
L’idea sarebbe quella di aggregare tutte le forze che – nel contesto parlamentare – si riconoscono nel progetto europeo. È chiaro che questa opzione necessita però di un supporto numerico. E i numeri, quelli che servono, sono letteralmente appesi a un filo. In primo luogo c’è una questione personale che riguarda direttamente il presidente del Consiglio. Se Gentiloni non dovesse riuscire a vincere nel collegio uninominale di Roma 1, la sua autorevolezza ne uscirebbe decisamente ridimensionata. C’è poi il rebus dei risultati che otterranno le varie liste e coalizioni.
La sponda ideale per il Quirinale è rappresentata da Paolo Gentiloni, a cui potrebbero essere affidate le chiavi di un nuovo governo, che sia di transizione ma che abbia la possibilità (e quindi anche l’orizzonte temporale) per lavorare con un realistico raggio d’azione. Diciamo almeno di un anno, anche per placare la prevedibilissima bufera finanziaria che potrebbe esplodere tra i mercati nei mesi successivi al voto
Partendo dal presupposto che nessuno otterrà i numeri per governare (e quindi la coalizione di centrodestra finisca sotto la fatidica soglia del 40%), ogni singolo decimale sarà determinante. A partire dal risultato del Partito Democratico e delle tre liste collegate. Per riportare il premier a Palazzo Chigi è vitale che quello del Pd risulti essere il primo gruppo parlamentare. Nonostante i sondaggi dicano ancora che i dem sono sotto il Movimento 5 Stelle, il meccanismo del Rosatellum, che fa convergere nel partito di maggioranza della coalizione i voti delle liste che raccolgono tra l’1 e il 3 per centro delle preferenze, rende questo obiettivo raggiungibile. A meno che – è il timore delle ultime ore al Nazareno e a Palazzo Chigi – la lista +Europa di Emma Bonino superi la soglia del 3% e, contemporaneamente, Civica Popolare di Beatrice Lorenzin e Insieme del trio Nencini-Santagata-Bonelli non arrivino all’1%. Uno scenario da incubo per i dem perché, a quel punto, la Bonino potrebbe formare un gruppo autonomo e i voti degli altri due andrebbero persi.
E comunque, anche se questa previsione fosse scongiurata, resterebbe molto complicato trovare i numeri per formare una maggioranza europeista disposta a sostenere un governo a termine. Si possono dare per acquisiti i voti della galassia centrista, anche quelli tornati (momentaneamente) nell’orbita berlusconiana. Non si può certo dire lo stesso per gli ex compagni di partito di Leu, che, nonostante le aperture ad un possibile “governissimo” fatte nelle scorse settimane da D’Alema, trattengono a fatica le spinte centrifughe non solo delle ali estreme (Fratoianni, Civati, Fassina) ma anche degli stessi fuoriusciti dal Pd, a cominciare da un peso massimo come Pier Luigi Bersani. E poi c’è il capitolo Forza Italia. Renzi e Berlusconi continuano a escludere pubblicamente le larghe intese, ma è chiaro che un eventuale Gentiloni-bis non potrà prescindere da un sostegno, anche parziale o indiretto, di quello che una volta veniva etichettato come il partito dei moderati italiani. Non è da escludere che, per senso di responsabilità o attratti da posizione di potere, alcuni degli esponenti azzurri possano fare da ancora di salvataggio per un governo in grado di rassicurare Europa e mercati.
Anche perché incombe, minacciosa, un’altra grande coalizione possibile, che sarebbe un macigno sulle velleità europeiste italiane: quella tra Movimento 5 Stelle e Lega, che – almeno a livello numerico – rischia di essere maggioritaria la sera del 4 marzo.