Il problema dell’Italia non si chiama fascismo, si chiama futuro

La campagna elettorale si gioca sempre più su un falso problema. La minaccia fascista non esiste. Esiste una sinistra che ne ha bisogno per fingersi un’identità “vintage”. Cose che succedono quando non si ha più un’idea di futuro

TIZIANA FABI / AFP

L’altro ieri qualche decine di migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare contro il fascismo, convinte che l’Italia corra davvero il rischio di ripiombare da un momento all’altro nell’incubo della dittatura; poche ore dopo, dodici milioni di italiani si sono accomodati serenamente sul divano per seguire la finale del Festival di Sanremo.
In proporzione, la faccia imbalsamata di Claudio Baglioni ha battuto l’incubo totalitarista circa 150 a 1.
Questa schiacciante vittoria del passerotto sullo spauracchio del fascio littorio la dice lunga su quanto sia alto il livello d’allarme nel Paese reale attorno al temutissimo “ritorno del fascismo”, che tuttavia è ufficialmente l’unico tema espresso dalla campagna elettorale della sinistra per le prossime elezioni.

Siamo sicuri che neppure il fatto di essersi fatti spezzare le reni dal Festival sarà sufficiente affinché qualcuno, a sinistra, capisca che l’ora delle decisioni irrevocabili è arrivata da un pezzo e dica che parlare di rischio concreto di ritorno al fascismo, nel 2018, sia una cagata pazzesca. Eppure basterebbe prendere un volo low-cost oppure un treno per Nizza o Lugano per rendersi conto che no, non c’è la Wehrmacht di stanza sulle Alpi pronta ad invaderci e nemmeno il grande orecchio dell’Ovra a monitorare le nostre chat su WhatsApp.

C’è, al contrario, un Ventunesimo secolo che ci aspetta al confine, con il suo enorme carico di problemi di cui dovremmo occuparci: dal Welfare State ormai insostenibile e da ripensare, alla concorrenza tra umani e robot da regolamentare, passando per i giganti della Silicon Valley che accumulano enormi capitali senza pagare un euro di tassa, rivoluzionando uno dopo l’altro ogni settore dell’economia.
Problemi nuovi che da noi si sommano a quell’altro enorme bastimento di panni sporchi che nessun governo ha avuto il coraggio di lavare dagli anni ’70 ad oggi, nel timore di scontentare qualcuno e perdere i voti necessari a giocarsi la rielezione. Dal debito pubblico alle liberalizzazioni, dal tasso di natalità alle pensioni, dalla disoccupazione alla competitività, ci sarebbero così tanti temi su cui discutere che, a voler parlare di tutto prima di votare, bisognerebbe spostare le elezioni di un paio d’anni.

E allora perché da noi si fanno gli stessi discorsi che si facevano di nascosto, ai tempi Italo Balbo e Galeazzo Ciano? Perché la sinistra italiana è evidentemente incapace non solo di immaginare ma perfino di riconoscere l’esistenza di qualunque tipo di futuro

E allora perché, se nel resto d’Europa discutono su come opporsi al protezionismo di Trump o alla volontà di potenza di Bezos, da noi si fanno gli stessi discorsi che si facevano di nascosto, ai tempi Italo Balbo e Galeazzo Ciano?

Perché la sinistra italiana (intesa nel suo complesso, e quindi partiti, giornali, elettori, eccetera) è evidentemente incapace non solo di immaginare ma perfino di riconoscere l’esistenza di qualunque tipo di futuro.
Non si tratta di una mancanza di proposte di legge o di un’assenza di politiche rivolte ai giovani: si tratta proprio di ficcarsi le dita negli occhi fino a cavarseli, piuttosto che accettare il fatto che il mondo è andato avanti, dal ’68 sono passati 50 anni e dal ’77 41, ovvero la stessa distanza che separava la loro gioventù dalla battaglia di Caporetto, e di quella realtà in bianco e nero di cui serbano nel cuore il più dolce dei ricordi non è rimasto assolutamente nulla.
Così, aiutati dal funzionamento “a bolle” della realtà attuale, futuro e sinistra italiana si muovono in due dimensioni diverse, come rette parallele destinate a non incontrarsi mai.
Per capirlo, bastava leggere il diluvio di accorati appelli postati da orde di 50-60enni, che come cavalli dopati radunavano i compagni al grido di “non lasciare la piazza in mano ai fasci” con le pupille che improvvisamente brillavano, come se fossero tornati i bei tempi della loro gioventù.
Se solo smettessero una buona volta di mettersi al centro dell’Universo come tanti piccoli soldatini Vitruviani, si accorgerebbero che i ventenni di oggi, ovvero quelli che ieri scendevano in piazza insieme loro, “la piazza” non sanno nemmeno cosa sia: a Mario Capanna hanno sostituito Fedez, alla retorica di Berlinguer i versi di Ghali.

E questo non perché siano ignoranti o degenerati come vi starete affrettando a commentare (rilassatevi: la prima tirata contro la gioventù “dissoluta” si legge nel Principe di Macchiavelli, anno 1532) ma semplicemente perché in Italia, proprio come nel resto del mondo, la guerra fredda è finita, fascismo e comunismo sono più morti degli zombie di The Walking Dead, sui muri non c’è più scritto Kossiga Boia e Okkio al Cranio e Sanremo, beh, quella è una dolorosa eccezione.
Intendiamoci: il conflitto sociale c’è ancora, anzi non è mai stato così forte perché non c’è mai stato nulla di così forte e mostruoso come il neo-liberismo, che trasforma ogni città, ogni quartiere, ogni strada nella sala d’aspetto di un aeroporto; ma le forme e le rappresentazioni sono cambiate, e continuare ad ammassarsi per premere contro la porta, nel tentativo di tenere fuori il futuro a oltranza, non fa che peggiorare un presente già entrato nella categoria della tragedia da circa un decennio.
Anche perché, abbandonati a loro stessi, i giovani reagiscono di conseguenza: i più coraggiosi o fortunati se ne vanno all’estero, inchiodando ancora di più il Paese alla sua mediocrità; altri si lasciano sedurre dal populismo, che qui trova sterminate praterie; molti – la maggioranza – semplicemente se ne fottono di un Paese che se ne fotte di loro: e infatti l’astensione sotto i 25 anni supera il 50%.
Una forza progressista che fallisce nel farsi promotrice delle istanze dei settori più attivi e dinamici della società è una contraddizione in termini: eppure è esattamente quello che accade alla sinistra italiana.
Dovrebbero essere prese, al più presto, misure drastiche: non la presa in giro di mance e mancette cui abbiamo assistito in questi anni, ma una rivoluzione culturale che metta il merito, il lavoro e la fine delle rendite di posizione al centro del programma, e a farsi promotrice della stessa dovrebbe e potrebbe essere solo la sinistra.

Dovrebbero essere prese, al più presto, misure drastiche: non la presa in giro di mance e mancette cui abbiamo assistito in questi anni, ma una rivoluzione culturale. Peccato che, per farlo, bisognerebbe andare a toccare i privilegi di quei 50-60enni che questo weekend sono corsi in soffitta a tirare fuori dalla naftalina le bandiere rosse, con la felicità dei bambini il giorno di Natale

Peccato che, per farlo, bisognerebbe andare a toccare i privilegi di quei 50-60enni che questo weekend sono corsi in soffitta a tirare fuori dalla naftalina le bandiere rosse, con la felicità dei bambini il giorno di Natale. Esattamente gli stessi che da decenni usano l’ideologia e il senso di appartenenza per azzoppare chiunque si azzardi a parlare di riforme, dalle liberalizzazioni di Bersani del 2007 fino al referendum costituzionale dello scorso anno, dichiarando a intervalli regolari il pericolo per la democrazia, l’imminente attentato all’ordinamento democratico. Prima Berlusconi, poi Grillo, poi Renzi, ora Salvini: c’e’ sempre un incubo fascista buono a deviare l’attenzione, e se anche a questo giro vincerà la destra non importa, avremo sempre il nostro indeterminato, la nostra casa di proprietà, la nostra meravigliosa superiorità morale.

Bloccando sul nascere ogni possibilità di riforma, chiudendo ogni spazio alla modernizzazione del Paese, la vecchia guardia di Uomini Buoni, di Sinceri Democratici al calduccio del loro privilegio di classe ha condannato intere fasce sociali allo stato di crisi permanente, spingendole a calci nel sedere prima verso Berlusconi poi verso i nuovi populismi leghisti o grillini, per poi trattarli come minus habens denigrandoli all’ora dell’aperitivo.
E perfino ora, ora che si è arrivati veramente al limite, piuttosto che mettersi una mano sulla coscienza hanno preferito dapprima farsi il loro piccolo-grande-partito e poi trasformare la campagna elettorale più sgangherata della Storia della Repubblica in un grande gioco di ruolo a tema anni ’70, dove a dettare l’agenda non è l’economia in disperato bisogno di rilancio ma la follia omicida di un delinquente armato di pistola (la cui pericolosità è diversa per grado ma non per sostanza a quella dei “manifestanti” di Piacenza che hanno accerchiato e pestato un carabiniere venti contro uno, nel nome dell’antifascismo e della democrazia).

Davanti alla loro “schiena dritta”, al loro fierissimo grido di allarme per il futuro dello Stato Democratico, l’Italia ha reagito stappandosi una birra sul divano, facendo il tifo per lo Stato Sociale. Anche per questo, in vista del 4 marzo, la parola d’ordine a sinistra sembra essere una sola: perdere.
E perderanno, probabilmente malissimo, e il conto come al solito lo pagheremo noi.

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