Il bastone. “Io ho il terrore delle divise, perché l’uomo, quando gli metti addosso una divisa, viene preso subito da manie dittatoriali. Le divise creano arroganza”. Concetto sufficientemente generico e insapore, benché condivisibile. Giochino. Se dico “divisa” a voi cosa viene in mente? Giusto. Anche a me. Carabinieri, polizia, vigili urbani e indivisati simili. A Mauro Corona, lo scrittore con la bandana, no. A lui vengono in mente “gli operai che mettono ai lavori sulle strade” con “una paletta in mano… da una parte il verde dall’altra il rosso per far defluire il traffico” e “una giacca fosforescente”. Beh, quella non è proprio una “divisa”, ma una tuta fittizia. Invece, Corona se la piglia coi poveracci che sbattono, stipendiati due lire, a spazientire gli automobilisti quando ci sono i lavori pubblici. “Spocchiosi, autoritari e arroganti” li battezza Corona, addirittura. Perché non se la piglia con quelli che indossano la divisa per davvero, con le forze dell’ordine? Perché, stringi stringi, Corona, che va in giro in canotta come contratto comanda, stringe il sederino, fa il forte con i deboli, fa lo sborone, come si dice in Romagna, fa il ganassa, come si dice a Milano, per vendere una manciata di copie dei suoi (debolissimi) libri. Così, le sue Confessioni ultime – manco fosse un Sant’Agostino in punto di spillare la parola decisiva – sono una vangelo della vigliaccheria, un bigino intriso di livore e di rancore, appena ristampato da Chiarelettere – l’edizione originale è del 2013 – forse per dare un ‘aiutino’ al Movimento 5 Stelle, visto che Corona ce l’ha con tutti, ma non con il suo dio da divano, Beppe Grillo, “dovremmo tutti fare i Beppe Grillo per ribellarci, indignarci e recuperare qualcosa” (con profezia finale, un poco demodé letta oggi: “ma Grillo gli farà un mazzo così a questi sapientoni del nulla”). Scalatore del piagnisteo, ramponiere della geremiade, pentatleta alle ‘lamentiadi’ (“io non avrò mai convenitori a favore perché scrivo robe di boschi, robe dimenticate, bracconieri, bevitori, montagne, torrenti, aria. Roba che quelli manco sanno cosa sono”, fa gne gne Corona, ma caro Corona, che ca**o dici?, pubblichi con Mondadori, mica con mia zia Peppa, vendi pure troppo) Corona infilza “gli intellettuali venditori di frasi” ma non ha neppure le palle di mettere al muro Antonio D’Orrico, il san Sebastiano del giornalismo culturale, reo di aver dichiarato che gli piacciono i libri di Giorgio Faletti, uno che “come scrittore sarebbe sconosciuto” – dice Corona – se “uno dei convenitori di quello che è bello e quello che non è bello” non avesse scritto che “ci troviamo di fronte al più grande scrittore italiano!”. Dotato di un ego più grande delle Dolomiti – a proposito delle sue Confessioni ne parla come di “una sorta di rivelazione” – Corona evangelizza i fan (quelli che “vedevano in me un modello”: urge nutrire Corona a pane e humilitate) con una sconcertante mitragliata di frasi fatte. Eccone un florilegio: “Spero in Dio, però non so più dov’è finito”; “L’essenziale è l’obiettivo da perseguire, da parte mia ci provo”; “A me non fanno invidia questi ricconi, non ho mai desiderato andare al Billionaire”; “credo che l’uomo non sarà mai felice finché desidererà quello che non ha”. Convinto assertore dell’amore tra omosessuali (“sto male in questa società cieca e feroce, dove prelati, ordini religiosi eccetera si scagliano contro due uomini o due donne che si vogliono bene e vogliono sposarsi”) e dell’accoglienza ai migranti (“vedo quelli che arrivano clandestini… e noi, come niente fosse, a gozzovigliare o a fare i razzisti. Di questo dovremo rendere conto”), libidinoso della banalità, Corona adotta la strategia del pavido. Tira la pietra e gira la schiena. Dice cose di comune idiozia, ma non si degna mai di fare nomi, cognomi, il rosario dei responsabili. Condendo la Confessione con frasi estrapolate da una folgorante pièce di Maurizio Crozza – tipo: “se voi date un piatto di spaghetti a un bambino, non andrà a mangiarseli al cesso, perché ha l’istinto che al cesso non si va a mangiare gli spaghetti” – Corona, montanaro inautentico, scrittore di romanzi di polistirolo, sbatte il muso contro il paradosso. Disprezza la cultura – “ho l’istinto che forse vale più di qualche laurea all’università” – e sfotte i ricconi, ma nella quarta del “testamento spirituale di Mauro Corona” (testuale: Corona si sta trasmutando in Paulo Coelho), allinea una serie di frasi redatte su Amazon dagli adepti al ‘coronismo’, religione che mi fa schiantare le coronarie. Avete letto bene. Amazon. Mica un rifugio sopra i 2mila metri di altitudine, trafitto dalle costellazioni e dagli stambecchi. Amazon. Il colosso della distribuzione. L’emblema del capitalismo sfrenato e del dio “ingordo&bastardo”. Ecco. Ora sappiamo da che parte sta Corona. Dalla parte dei forti.
Mauro Corona, Confessioni ultime, Chiarelettere 2018, pp.114, euro 12,00
La carota. A un romanzo qualsiasi di Mauro Corona è preferibile una salutare scampagnata in montagna. Se poi, atterrati al rifugio, volete sciogliere i polpacci con un buon libro ecco un’indicazione di massima. Evitate i romanzieri ‘della montagna’, quelli che gli va l’ossigeno al cervello e ve la menano con l’etica della vita ‘all’aria aperta’, con soporifere camomille di naturismo beota. Beccatevi due libri, allora. Questi. Intanto, le “Lettere dall’Everest” di George Mallory, alpinista vero, pioniere delle pazzesche spedizioni compiute per vincere la montagna più alta al mondo, che tra quegli abissi ha perso la vita. “Suppongo che andiamo all’Everest perché – in una parola – non possiamo farne a meno”, diceva Mallory, concreto come un vero figlio d’Albione, senza fiori retorici, perché “chi rifiuta l’avventura corre il rischio di inaridirsi” e la montagna è un magnete imperdonabile. All’amata Ruth, da lassù, tra le dimore degli dèi, Mallory scrive, “si arriva perfino ad apprezzare la nudità assoluta, sentendo che qui vi è una pura bellezza di forme, una specie di armonia definitiva”. Alla ricerca dell’armonia definitiva si gettò pure Peter Matthiessen, in quel classico della montagna, orientato al Tibet, che è Il leopardo delle nevi. La vertigine himalayana azzera ogni convenzione, pretende clamorose conversioni. Così, il viaggio verso i recessi della Terra e verso le livide altitudini è – come sempre – inabissamento nel proprio cuore di tenebre. Il libro di Matthiessen piace tanto anche a Paolo Cognetti: ma non gli è servito per evitare di scrivere Le otto montagne, ennesimo romanzo patetico sull’andar per vette.
George Mallory, “Lettere dall’Everest”, Tararà 2017, pp.166, euro 17,00
Peter Matthiessen, Il leopardo delle nevi, Beat 2015, pp.348, euro 9,0