Milano, vuoi essere capitale? Liberati dal complesso di Cenerentola

Sempre leggermente subalterna in politica rispetto a Roma, Milano vuole contare di più (per ultimo lo ha detto Beppe Sala), ma restano le contraddizioni di una città che non riesce ad essere davvero capitale, e si sente un po’ Cenerentola

Milano deve sentirsi davvero trascurata se, per la seconda volta in una settimana, il sindaco Beppe Sala rilancia il suo ultimatum: “O l’Italia ci aiuta a correre o ci rivolgeremo direttamente all’Europa”. Questa idea idea di una Milano che va da sola, e si confronta con Berlino, Madrid, Bruxelles, Londra, senza la zavorra di Roma è un po’ una fissa della milanesità. Si pensava fosse stata superata dopo le molte attenzioni riservate alla città dagli ultimi governi – vedi Expo, che per un anno non si è parlato d’altro – e invece no, il complesso di Cenerentola continua ad amareggiare gli amministratori locali.

“Siamo i più bravi di tutti e non ci valorizzano”, dicono i milanesi. Non è difficile vederci dietro la delusione per l’Agenzia del Farmaco, trattata dal governo come affaire secondario, senza neppure l’impegno di un ministro al tavolo decisivo, e poi l’arrabbiatura per lo scarso tasso di milanesità degli ultimi esecutivi, e anche delle recenti liste Pd dove i milanesi doc si contano sulle dita di una mano. Ma questa idea di Milano che sgobba, studia, produce, inventa, trascinandosi dietro il resto d’Italia pigro e riottoso è più antica e radicata. E’ uno sguardo sul Centro-Sud rimasto ai tempi di Totò e Peppino con il colbacco e la gallina sottobraccio, di Diego Abbatantuono che straparla in pugliese con la maglia del Milan, di Alberto Sordi che finge di parlare lumbard dirigendo il traffico in Piazza del Duomo. Si può lavorare per questa gente qui, queste macchiette?

Ai tempi della Milano da bere, la città riuscì ad essere appena una replica di provincia di ciò che agitava i favolosi ’80: New York aveva lo Studio 54 con Bianca Jagger che entrava sul cavallo bianco, Londra inventava gli yuppies e la street fashion, Parigi costruiva la Piramide in Piazza del Louvre, loro si contentavano di uno slogan dell’Amaro Ramazzotti e di Umberto Smaila con Colpo Grosso

Milano, dice Sala, dovrebbe essere considerata “la guida operativa” del Paese. Siamo ben oltre la “Capitale morale”, che è stata l’ossessione di tre o quattro generazioni finché Tangentopoli non ci ha messo una pietra sola. Insomma, Milano non vuole i ministeri (“Non ce ne facciamo nulla”) ma par di capire che vorrebbe i ministri, le Autorithy, i centri di controllo, le cose che contano, dove attualmente il tasso di milanesità è bassissimo. Ma nel racconto meraviglioso che fa di sé, Milano dimentica che persino l’ultima volta che è stata grande, e oggettivamente potente, ai tempi della Milano da bere, riuscì ad essere appena una replica di provincia di ciò che agitava i favolosi ’80: New York aveva lo Studio 54 con Bianca Jagger che entrava sul cavallo bianco, Londra inventava gli yuppies e la street fashion, Parigi costruiva la Piramide in Piazza del Louvre, loro si contentavano di uno slogan dell’Amaro Ramazzotti e di Umberto Smaila con Colpo Grosso.

Essere grandi, essere città-guida nell’immaginario collettivo e quindi nei rapporti di potere con il resto del Paese e con l’Europa, non è ruolo che si conquisti con i dati di fatturato o di Pil prodotto, ne’ tantomeno lamentandosi di non essere aiutati. Roma – scaciata, povera, senza metro, incistata dentro periferie schifose, mal governata, indebitata fino al collo, sporca – ancora campa di rendita con l’allure di Cesare e Adriano, e nella sua sbracata decadenza riesce a essere comunque internazionale, non fosse altro che per l’assenza di pudore con cui esibisce se stessa e il suo disfacimento ai branchi di turisti stupefatti sulle strisce pedonali: “Aho, ce venite da Tokyo a fermà il traffico?”.

Milano solidale, che però quando arrivarono in stazione i primi profughi siriani li lasciò per settimane alla Stazione Centrale avvolti nei cartoni, famiglie intere con bambini. Milano che aumenta costantemente il reddito pro-capite, ma anche il numero di poveri

E quindi alla fine forse tutta questa voglia spazio, riconoscimento, gratificazione – “Date a Milano quel che merita” – non è la sfida di una città presuntuosa ma la sofferenza di un atavico complesso di Cenerentola, che peraltro ha una sua ragion d’essere nel gap tra il racconto pubblico che Milano fa di se’ e i fatti concreti della città. Milano con i suoi celebrati 90 chilometri di metropolitana ma con i pezzi di legno messi sotto le traversine ferroviarie per tenerle insieme. Milano con il suo famoso skyline unico in Italia ma con il 40 per cento degli appartamenti a City Life e Porta Nuova ancora sfitti. Milano solidale, che però quando arrivarono in stazione i primi profughi siriani li lasciò per settimane alla Stazione Centrale avvolti nei cartoni, famiglie intere con bambini. Milano che aumenta costantemente il reddito pro-capite, ma anche il numero di poveri.

Sulla richiesta di una maggiore considerazione per la milanesità Beppe Sala ha costruito addirittura un libro autobiografico (“Milano e il secolo delle città”, edito da La Nave di Teseo), e gli si darà atto di aver scelto – almeno – un modo differente di esprimere la sua protesta. Altri, a diverse latitudini e in diverse città, avrebbero fatto una caciarata televisiva o preparato qualche obliqua trappola per far arrivare il messaggio al governo. I simpatizzanti diranno: beh, ecco qui, ha dimostrato la serietà milanese. Gli altri sorrideranno: ma davvero pensa di cavarne qualcosa?

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