Piazze vuote, zero dibattiti, promesse a vanvera: ecco la campagna elettorale più noiosa di sempre

Si parla di soldi (in modo irrealistico), di immigrazione (in modo delirante). Si inseguono la cronaca nera e i sondaggi come capita. Non c'è un vero confronto. Apparenze vacue che nascondono la paura di proposte politiche serie

Magari è ancora presto per dire, come fanno molti, “la più brutta campagna di sempre”. Manca appena un mese e le cose potrebbero raddrizzarsi un po’, ma per il momento la corsa è fatta da quattro persone – Renzi, Berlusconi, Di Maio, Salvini – che parlano ai rispettivi elettorati essenzialmente di due cose, soldi e immigrazione, inseguendo a seconda delle giornate un po’ la cronaca nera, un po’ i sondaggi, un po’ i rapporti Istat, e su tutto spalmando promesse mirabolanti ai pensionati, ai disoccupati, ai giovani, ai vecchi, a quelli che hanno paura degli immigrati. Le sparate sulle espulsioni, sulle tasse al 15 per cento per tutti, sui mille euro ai poveri, alle mamme o a chicchessia sono fatte per di più in totale assenza di contraddittorio, a mezzo nota stampa, via social o in rapidi comizi televisivi. Insomma, in modo che nessun avversario possa obiettare: questa è una sciocchezza e ora spiego il perché.

La campagna elettorale è noiosa, dicono tutti, e hanno ragione. Ma perché è così noiosa? C’è un problema di comunicazione o qualcosa di più strutturale che tiene ancorati i leader a caccia di voti a questa quotidiana pesca delle occasioni, dove ciascuno tenta di galvanizzare il suo mondo e non si espone oltre i confini di una retorica già sperimentata?

In Italia si è rinunciato del tutto a mettere insieme una piazza, la piazza è quella virtuale della tv. Le bacheche social dei leader sembrano il vecchio Radiocorriere, un lungo elenco di ospitate televisive appena interrotto da qualche inaugurazione di comitato elettorale qua è là

Tra il 2016 e il 2017 abbiamo seguito le corse elettorali per la Brexit, per le elezioni francesi, olandesi e tedesche (per non parlare del voto americano), tutte caratterizzate da una presenza leaderistica analoga alla nostra, e ci sono sembrate tutte più interessanti. Altrove, ad esempio, è ancora in vigore l’uso del comizio, della visita in fabbrica o nelle zone rurali, che obbligano a trovare un registro per parlare di cose diverse a tipi diversi di elettori: agricoltori, operai, borghesia cittadina, residenti nelle aree di crisi, e talvolta costringono a confrontarsi con la contestazione. In Italia no. In Italia si è rinunciato del tutto a mettere insieme una piazza, la piazza è quella virtuale della tv. Le bacheche social dei leader sembrano il vecchio Radiocorriere, un lungo elenco di ospitate televisive appena interrotto da qualche inaugurazione di comitato elettorale qua è là.

E anche in tv si va con precauzioni esagerate. Da soli oppure a tu per tu con i conduttori, con una liturgia così prevedibile da immaginare che sia stata attentamente concordata: “Se vuoi che venga, regolati così”. I confronti tra i capi di partito non ci sono da anni, in totale controtendenza con le modalità del resto d’Europa. In Germania Angela Merkel e Martin Shultz si incontrarono (e scontrarono) sui rispettivi programmi a inizio campagna, squadernando le rispettive agende e dando modo a tutti di discuterne per un bel po’. In Gran Bretagna, Theresa May e Jeremy Corbin si affrontarono in due faccia-a-faccia, uno quindici giorni prima delle urne e l’altro a ridosso dell’apertura dei seggi. In Francia, i cinque candidati alle presidenziali si sfidarono oltre un mese prima del turno del 23 aprile in un confronto durato quasi tre ore su TF1, che consentì anche di farsi domande l’un l’altro: fu in quella occasione che decollò la popolarità di Emmanuel Macron che emerse tra i quattro concorrenti, riuscendo ad imporsi anche sulla agguerritissima Marine Le Pen.

Il leaderismo italiano, un fenomeno che nell’aspetto esteriore replica le modalità europee ma che forse, nella sua intima essenza, è più legato alla vecchia prudenza democristiana che ai modelli delle democrazie d’Oltralpe

Di che cosa hanno paura i leader italiani, compresi i nuovissimi signori del Cinque Stelle, che certo non dovrebbero temere la sfida a viso aperto, ne’ in piazza ne’ in televisione? Perché risultano così arroccati, e quindi danno vita a una campagna così noiosa, dove ognuno si limita a parlare alla sua tifoseria? Davvero vogliono vincere?
Oppure il loro segreto pensiero è che l’importante è non perdere, e quindi evitare il rischio di un comizio semivuoto o di una battuta fulminante in diretta? L’insicurezza di queste leadership, che peraltro ci tengono ad apparire assertive e pugnaci, fa riflettere. Non è cosa di oggi: l’ultimo duello tra leader è un Berlusconi-Prodi del 2006, dodici anni fa, poi più niente. E anche questo dice qualcosa sul leaderismo italiano, un fenomeno che nell’aspetto esteriore replica le modalità europee ma che forse, nella sua intima essenza, è più legato alla vecchia prudenza democristiana che ai modelli delle democrazie d’Oltralpe.

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