Poesia sul disamore di Patrizia Valduga
Perché chi è amato è cosi sciocco e greve?
l’errore è nella causa o nell’effetto?
Voglio un posto di viole e bucaneve…
di biancospini… il mio posto segreto…
Vattene, adesso!… prendi il vaporetto…
non fingiamoci Ofelia con Amleto…
perché è soltanto fiato, sete e fame,
e accoppiamento e malattia e morte…
e del fuoco che a volte mi fa infame
io lo giuro, la colpa non è mia:
non posso farci niente, è la mia sorte…
Vattene adesso, vattene, va’ via!
Tirati dietro azzurro, oro e mare,
ma lascia i fiori, lascia qui i miei fiori!
ma dove sono? li vorrei toccare…
le viole, i bucaneve, i biancospini,
deponimeli qui… non manca molto…
li voglio tutti qui… sopra… vicini…
il tempo adesso è tutto capovolto…
adesso mi amerai? mi amerai molto?
mi si perdona quello che ti ho tolto?
e la malinconia? la mia mestizia?
Fiori sui morti! fiori su chi è vivo!
fiori… misericordia e non giustizia!
Ecco il giorno che dice “Arrivo, arrivo!”
e io… io mi lamento che non vivo…
Fiori sui morti! fiori su chi è vivo!
Fiori su questi letti di tortura
e fiori sul martirio e sul terrore…
Fiori sul buio che ci fa paura,
fiori su piaghe, fiori su ferite,
fiori sul dolce delirio del cuore,
fiori sulle speranze seppellite!
Fiori sui vivi! Fiori su chi muore!
Beato chi crede ancora nell’amore!
da Patrizia Valduga, Prima Antologia, Einaudi, 2004 (precedentemente in Corsia degli incurabili, Garzanti, 1995).
Commento
L’impossibilità dell’amore è la sua più grande bellezza. Esso è un irrealizzabile che ci si sforza in ogni modo di realizzare, ben consapevoli della vanità del proprio sforzo. “Se sono stata una sentimentale,/ sempre cascata nello stesso errore/ non fatemi del male, per favore”, chiede dunque con tono quasi implorante la Valduga, in una sua bellissima poesia contenuta in Donna di dolori. E così conclude: “Dato che alla fine, tutto sommato,/ io ho tentato. Ho voluto tentare/ E se ho sbagliato che posso fare?/ sbagliare ancora e ancora e così via”. Resta il piacere doloroso dello struggimento, l’eroismo di essersi votati a un’attività fallimentare sapendo di andare incontro alla sconfitta.
In verità, è difficilissimo trovare una bella poesia d’amore che racconti nella sua concretezza un rapporto felice. I rapporti non sono felici, se non quelli vagheggiati, quando l’altro ci viene a visitare come pensiero nel segreto della nostra stanza. La carne, nella sua materialità, corrompe inevitabilmente, rende triviale. Un Dio sta bene unicamente in cielo. Infatti, la maggior parte delle poesie d’amore che ci restano nel cuore parlano di una creatura ideale o idealizzata. La famosissima lirica di Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, in cui invece la prossimità dell’amata è immediata, è, non per niente, di una banalità sconcertante.
Se si vuole quindi descrivere un rapporto, per quella che è la sua tragica realtà di incomprensioni e mancati avvicinamenti, non resterà che fare come la già citata poetessa milanese: scrivere una poesia di disamore. “Perché è soltanto fiato, sete e fame,/ e accoppiamento e malattia e morte”. Bastano poche parole per descrivere quello che si vede, una volta che il velo di Maya è stato squarciato. In questa magnifica lirica, tratta da Corsia degli incurabili, l’io poetico, posto al cospetto del suo destino, la morte prossima (“il tempo adesso è tutto capovolto”), perduta ogni remora, si scaglia contro l’oggetto d’amore. L’incipit è violentemente prosastico: chi è amato è “sciocco e greve”. Il prosieguo conosce un sublime innalzamento del tono, un qualcosa di molto raro quando della vita e dell’amore si vanno a indagare gli abissi piuttosto che i vertici. Subito siamo messi al cospetto di un desiderio di purezza, rappresentato da quei “fiori” (“Voglio un posto di viole e bucaneve…/di biancospini… il mio posto segreto”), che il rapporto nella sua realtà non sa dare. La contrapposizione è totale: da una parte la dimensione virginale-floreale, dall’altra tutti gli aspetti più squallidi del sentimento vissuto (fiato, sete, fame, terrore, martirio, tortura). Da notare quel fantastico “non fingiamoci Ofelia con Amleto”, la presa d’atto della drammatica distanza che intercorre tra l’esistenza e la letteratura, anche quando la vita si sforza di imitare l’arte (Sartre avrebbe detto che solo in un’opera d’arte l’amore è veramente amore, come solo il dolore è veramente dolore).
In conclusione, molto semplicemente, in amore non potrebbe essere altrimenti (“del fuoco che a volte mi fa infame/ io lo giuro, la colpa non è mia:/ non posso farci niente, è la mia sorte”). Questo sentimento, tanto perseguito e invocato come “misericordia” e – attenzione – “non giustizia”, non si può dare. Ci vorrebbero unicamente fiori, “sui morti” e “su chi è vivo”. In ultimo, resta solo l’invidia per “chi crede ancora nell’amore”.
Matteo Fais
*
Poesia d’amore di Umberto Saba
Ed amai nuovamente; e fu di Lina
dal rosso scialle il più della mia vita.
Quella che cresce accanto a noi, bambina
dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
Trieste è la città, la donna è Lina,
per cui scrissi il mio libro di più ardita
sincerità; né della sua fu fin’
ad oggi mai l’anima mia partita.
Ogni altro conobbi umano amore;
ma per Lina torrei di nuovo un’altra
vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l’altezza l’amai del suo dolore;
perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,
e tutto seppe, e non se stessa, amare.
Commento
Che noia l’amore idealizzato, la donna angelicata, la canzone all’amore perduto, la perdizione come quintessenza di eros. La poesia come masturbazione mentale, insomma, non mi piace, se devo essere mentale più che alla donna che non me la dà, imbastisco un barbarico mondo delle idee. No. Basta. La vera ribellione alla norma – è dai provenzali in qua, 1800 anni di voluttà e di plumbea nenia in forma di sonetto – è cantare la carne, la presenza, la tracotanza dell’amore vero, vissuto, penetrato. Vergare versi sulla schiena di una donna poco dopo averla domata, come fa il geniale visconte di Valmont delle Relazioni pericolose. Godere tutto e godere ora, reiteratamente, fino ad amare i difetti dell’amata: troppo facile fare come Orfeo, innescare il canto quando la bella è perduta per sempre, negli scantinati degli Inferi. La donna va cantata mentre ci bacia, ora, mentre desideriamo la sua morte, la sua assenza, per poi ridesiderarla con siderea potenza. Per cui, alle poesie del disamore – di disarmante bruttezza – della Valduga, ammetto il canto coniugale di Umberto Saba. Poesie per la moglie… Pare la lapide alla poesia, che di solito – per piacioneria, per cattività d’istinto, per beare l’ovvio – canta il tradimento, l’amante dietro la finestra del vicino, l’amore frustrato, castrato, impossibilitato. Invece. Che coraggio fenomenale ci vuole a rinchiudere nel chiostro di un sonetto l’amore per la moglie – per la solita, rompipalle, consueta, consunta moglie. Eppure, lo sappiamo, Saba non aveva occhi né stilo che per lei, Carlina Wölfler, ribattezzata Lina.
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