Il bastone. Dopo certe vicissitudini esistenziali comuni a tutti, costellate da figli, Lea, 49 anni, sta con Shlomo, israeliano tarchiato e muscoloso, vigorosamente stronzo. Alla canonica infelicità familiare – dall’incipit granitico di Anna Karenina è sempre lo stessa storia: “tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo” – si somma la scoperta del tumore, che Lea descrive senza troppa teodicea (“La chemioterapia fa schifo”; “I capelli cadono a manciate. Faccio schifo”). Altoborghese laica, in odore d’ateismo (passa di fianco a un Crocefisso, ghigna: “non c’entrava il cancro con questo momento della mia vita, è proprio una bastardata”), Lea, complice la malattia, cerca un maschio che le faccia dimenticare Shlomo, anaffettivo minchione. Scartato il dentista che “somiglia veramente a Bono Vox”, Lea frigge per Luca, malato come lei, 17 anni più giovane, che le regala un libro di poesie di Pedro Solinas – voi cambiate genere, please, le poesie di Solinas sono marshmallow in versi, stomachevoli – e ammira con lei il tramonto in Liguria. Il toy boy, ad ogni modo, si sgonfia presto, alla fine del libro muore pure, e Lea torna con Shlomo, l’uomo duro&crudo, giustificando così l’interrogativo kantiano che Daria Bignardi, l’autrice, denuncia in bandella: “Perché certe persone si innamorano proprio di chi le fa soffrire?”. Domanda francamente imbarazzante, buona per avviare una chat di milf, non certo utile – a meno che non tu non abbia la virilità letteraria del Divin Marchese – per edificare un romanzo. La vicenda di Lea, sfigata in amore e pure col cancro, gonfia di meschino sentimentalismo, provoca continui conati di noia: c’è bisogno di un idrante di caffè per arrivare ancora desti alla fine del romanzo. Daria Bignardi è al sesto romanzo in nove anni (e questo accade dopo tre anni di maggese, per fortuna nostra), una marcia da atleta poligrafo. Storia della mia ansia, più che altro, è la storia dell’ansia di Daria per qualificarsi come scrittrice, dopo una notevole carriera in tivù, tra Tempi moderni, Grande Fratello e Invasioni barbariche. Da Non vi lascerò orfani (2009), ‘benedetto’ da Goffredo Fofi – lo dice lei, reiteratamente, ad ogni teleguidata intervista, “Insomma, Goffredo Fofi ha scritto: ‘È nata una scrittrice’”, povero Fofi, passerà alla storia per aver ‘scoperto’ la Bignardi, come D’Orrico per aver sdoganato Faletti scrittore – la Bignardi è rimasta orfana di critici autorevoli. Nessuno può dirlo, ma a nessuno piacciono i romanzi della Bignardi. Nel profluvio di interviste d’inquietante inutilità e di recensioni pilotate – l’ultima sul ‘Corrierone’ – con effluvi retorici che profumano il vuoto, Mondadori non trova un editor negriero che compili la ‘quarta’ di Storia della mia ansia. Se la scrive da sé Daria, con scaltra ingenuità – “un pomeriggio di tre anni fa, mentre stavo sul divano a leggere, un’idea mi ha trapassato come un raggio dall’astronave dei marziani”; marziani, per altro, che ritornano anche nello studio del dentista bono come Bono, “la macchina fa un suono identico al segnale di Incontro ravvicinati del terzo tipo”, ma se la portassero via, i marziani… Ovvio: il ‘personaggio’ conta molto di più del romanzo. Il lettore, infatti, non vuole leggere un libro – storia sciatta, superficiale e scritta male – ma guardare cosa c’è sotto le mutande della Bignardi, come vive, cosa vede, cosa pensa la vip, che masochismo psichico. Inadatta a narrare un divano come il cancro, così, la Bignardi adotta il più infame degli espedienti letterari. Raccontare il tumore. Per lo meno, la lacrimuccia dei buoni di cuore assolverà l’incapacità narrativa. In letteratura giocare sporco con le emozioni non funziona. Il cancro raccontato dalla Bignardi manda in cancrena il nostro organo estetico.
Daria Bignardi, Storia della mia ansia, Mondadori 2018, pp.188, euro 19,00 .
La carota. Per risollevarci dalla lettura esteticamente devastante della Bignardi ci vogliono due libri. Il primo c’insegna, in questa ecclesia letteraria dove per farsi leggere gli scrittori pigliano a raccontarci i loro mali e i cazzi loro (ipotizzo un poema epico, in endecasillabi sciolti, sulle ragadi anali, prossimamente), a narrare il dolore. Il libro non è esattamente fiction. Lo è l’organizzazione narrativa – un tantino diabolica – di Ingmar Bergman, il quale compie 100 anni quest’anno, auguri. Nel 2004 il grande regista pubblica Tre diari. Il libro ruota intorno alla malattia – cancro allo stomaco – che stronca la vita di Ingrid von Rosen, la quinta (e definitiva) moglie di Bergman. I ‘tre diari’, che dettagliano da tre sguardi diversi lo stesso massacro (chi vive il male e chi vive con chi vive il male e chi spia entrambi), sono quelli di Ingmar, della moglie Ingrid e della figlia dei due Maria von Rosen. Dettaglio non irrilevante: Maria nasce nel 1959, dalla relazione fedifraga tra Ingmar e Ingrid (che si sposano nel 1971), cresciuta nella casa del patrigno (indossando il cognome di lui). La malattia rende voluminoso e violento questo artico menage a trois. Ingmar si sente colpevole della malattia della moglie; la moglie avverte il male come una rivelazione; la figlia sperimenta nel dolore definitivo l’unica forma di contatto con il padre. “Sono un vecchio vaso da notte incrinato, pieno di svaporata autocompassione. A volte vengo anche colpito da una sorta di spossatezza interiore, che forse è dovuta effettivamente alla mia età. Ma cosa mi aspettavo?”, scrive Ingmar. Sono diari autentici, sono rimaneggiamenti postumi? Il ‘montaggio’ letterario – con tratti sublimi: “Conterò i giorni fino a quando la serenità non scenderà su di noi. Conterò i giorni dovessi contare fino alla fine dei tempi… un bambino di 76 anni viene cacciato fuori dalla stanza e deve finalmente reagire come un adulto. È bizzarro e inaudito allo stesso tempo. Vengo a contatto con sentimenti (consapevolezze?) finora sconosciuti” – rende il libro un capolavoro della crudeltà (postfazione di Goffredo Fofi, che passa con serenità da Ingmar a Daria, evidentemente): il cancro denuda i rapporti, suppura il male che sta alla base dell’amore, esilia il falso, e tutti si scoprono puri come gli angeli della vendetta. Quanto al resto: occorre salvare dalle grinfie della Bignardi la cosiddetta letteratura ‘al femminile’. Tranquilli, lasciate perdere la fatua Daria, le donne spesso sono scrittrici fatali. Pigliate Carson McCullers. Geniale scrittrice del Sud degli States, sta tra Faulkner e la O’Connor e ha uno stile di ciclopica possanza. Il suo romanzo più bello – lo dicono i critici – s’intitola Invito a nozze (1946) e torna per Einaudi nella traduzione d’annata di Leo Longanesi (e Gino Dallari). La trama spiccia – ragazzina eccentrica cerca la fuga dal mondo noto, tra freaks e fratello che si va a maritare – è sorretta da uno stile di atavica superbia. Basti l’incipit: “Accadde tutto in quella verde e folle estate, quando Frankie aveva dodici anni e già da molto tempo non faceva più parte di nessun circolo. Era ormai un essere scombinato che gironzolava di porta in porta con grande paura. Gli alberi, in giugno di un verde vivo e smagliante, avevano preso una tinta cupa, e la città, sotto la vampa canicolare, si era annerita e accartocciata”. Daria dovrebbe studiare accuratamente il ritmo di queste frasi, la tensione degli aggettivi, ben dosati, l’energia vibrante, ovunque. Per vostra informazione. La McCullers fu afflitta da incredibili mali. Ictus a trent’anni, marito che la vuole obbligare al suicidio, depressione, tumore al seno. Morì a 50 anni. Più che farci due palle così con le sue micidiali sfortune, ha scritto libri bellissimi.
Ingmar Bergman e Maria von Rosen, Tre diari, Iperborea 2008
Carson McCullers, Invito a nozze, Einaudi 2018, pp.222, euro 16,00