Marzo 2018, questo è ciò che dice il calendario del mio cellulare, eppure, trovandomi davanti all’ennesima affissione pubblicitaria di vari festival italiani, ho iniziato a pensare di essermi risvegliata negli anni ’90 (se non prima). Davanti ho un cartellone con su scritto Rock In Roma, manifestazione che fra pochi mesi ospiterà Megadeth, Jeff Beck, Roger Waters, The Chemical Brothers. Cambio città, il Firenze Rocks quest’anno ci porta come headliner Foo Fighters, Guns N’ Roses, Iron Maiden, Ozzy Osbourne. A Milano, tra i nomi annunciati all’I-Days, troviamo i Pearl Jam e i fratelli Gallagher che si fanno concorrenza a vicenda in giorni separati, ognuno col proprio progetto solista. Ora, senza nulla togliere al segno che i sopraccitati artisti hanno lasciato nella storia della musica, la domanda resta una: ancora? Una cosa è chiara: in Italia, le grandi cifre con nomi internazionali riusciamo a farle soltanto volgendo lo sguardo al passato.
Se è vero che tutto torna, d’altra parte è facile rendersi conto che certe cose non sono mai passate. Mentre ora i trend del momento si consumano in un respiro, ci sono realtà d’altri tempi che resistono allo scorrere della sabbia nella clessidra. L’infinita possibilità di fruizione della musica ai nostri tempi ci permette di arrivare a conoscere gruppi di nicchia e artisti che sono più vicini ai gusti personali, ma che restano piccole realtà con un relativamente piccolo seguito. Prima del web, prima di Spotify, in radio e in televisione ci poteva arrivare solo chi dimostrava una potenza tale da sfondare il muro dell’indifferenza richiamando l’attenzione su di sé. Risultato: la dubstep che tanto andava qualche anno fa non se la fila più nessuno, però in giro vediamo ragazzini con le magliette dei Metallica comprate da H&M. Se sanno o meno che musica suona la band di cui indossano il nome noi non possiamo saperlo (solo dubitarne). Viviamo in un presente creato sull’immagine del passato, a partire dalle nuove serie tv che strizzano l’occhio agli anni ’80 arrivando al ritorno al vinile, e le band che hanno fatto la storia dell’heavy metal sono diventate dei veri e propri brand. Ma la musica dove la mettiamo?
Come è sbagliato limitare i propri ascolti alla moda del momento, lo è pure ridurli alla sola musica che ha fatto la storia dei tempi che furono. Quando il periodo d’oro di una band è ormai passato da decenni, tolta la curiosità di vedere queste icone esibirsi sul palco almeno una volta, il rischio tristezza è dietro l’angolo. Cosa ci si aspetta di sentire da Liam e Noel Gallagher? Di certo l’aspettativa del pubblico non marcia sulle loro nuove canzoni, quello che importa è sentire Wonderwall. Cosa ci si aspetta dalla reunion dei Guns N’ Roses? Una sorta di tributo a se stessi e un auto-karaoke di Welcome To The Jungle buttato in caciara. Ovunque il music business punta sulle vecchie glorie e soldi facili a base di nostalgia, ma l’Italia è regina nell’offerta memorabilia. Siamo pieni di rassegne musicali interessanti, che riescono a portare nel nostro Paese artisti internazionali degni di nota, ma quando si tratta di pensare in grande ancora non abbiamo i mezzi per poterci permettere Bon Iver, Frank Ocean, Kendrick Lamar. Vuoi per il poco interesse delle amministrazioni ad investire in eventi del genere, vuoi per il fatto che nessuno si prenderebbe il rischio di un flop davanti a cachet così alti, vuoi che arriviamo ad interessarci a certi artisti sempre con ritardo. Fatto sta che per la visita al museo delle cere siamo sul pezzo, mentre per vivere la musica presente ci troviamo costretti a prendere un volo low cost e partire.
Se lo chiedeva già Simon Reynolds qualche anno fa nel suo Retromania: “L’era pop in cui viviamo è impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. Gruppi che si riformano, reunion tour, album tributo e cofanetti […] E se il pericolo più serio per il futuro della nostra cultura musicale fosse… il passato?”.