Le elezioni di domenica non hanno rappresentato solo un voto politico, ma un Game Change. Uno di quei momenti in cui tutto cambia e ci si ritrova con regole nuove, categorie nuove e necessità di nuove chiavi di lettura e interpretazione. È successo l’ultima volta nel 1994, dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Ritorna oggi, quasi venticinque anni dopo, con il trionfo del Movimento 5 Stelle e della Lega e la sconfitta del Partito Democratico di Matteo Renzi e dell’eterno, fino a ieri, Silvio Berlusconi.
Quando un elettore su due si accoda a un pensiero, a delle parole chiare, a un senso comune molto facile che risponde a bisogni elementari, non si può più parlare di voto di protesta o di pancia. È un voto ragionato, pensato, nato nel tempo. Quando un elettore su due la pensa in un modo, anche se non lo consideri giusto, forse, il problema sei tu. E tutto quello che consideravi buono e giusto, semplicemente interessava solo te e quelli che la pensano come te. È quello che i politologi chiamano «rovesciamento del frame», ovvero la creazione di un nuovo schema di pensiero dominante dentro il quale vengono intercettati bisogni, domande e risposte e veicolate in metafore e concetti chiave. Le avvisaglie, del resto, c’erano tutte anche questa volta. Nel 2016 la Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’esito del referendum costituzionale. Mentre aspettavamo la rivoluzione guardando a sinistra — chi sperando nel papa straniero, chi in un “pensiero magico” che avrebbe risolto per miracolo i mali del paese che noi, solo noi, siamo in grado di capire — questa è arrivata da un’altra parte. La sveglia stava arrivando, abbiamo solo fatto finta di non vederla.
Mentre aspettavamo la rivoluzione guardando a sinistra — chi sperando nel papa straniero, chi in un “pensiero magico” che avrebbe risolto per miracolo i mali del paese che noi, solo noi, siamo in grado di capire — questa è arrivata da un’altra parte. La sveglia stava arrivando, abbiamo solo fatto finta di non vederla
Da un certo punto di vista è meglio così. Abbiamo parlato per anni di come la nostalgia ci attanagliasse impedendoci un vero scatto in avanti; di come la retromania impedisse anche proprio di immaginare un futuro possibile al di là dell’esistente; di come la hauntology (riprendendo quel Mark Fisher di cui abbiamo scritto qui) innescasse questa rassegnazione alla mancanza di alternative rimpiangendo qualcosa che non è mai capitato. Tutto sparito in una notte. Via i fantasmi della sinistra che non c’è mai stata, via gli spettri di Berlusconi. A questo punto siamo davvero dentro l’Interregno evocato da Antonio Gramsci e che molti si sono affrettati a citare negli ultimi mesi. In realtà, questo Interregno, è il luogo di una Grande Transizione che viviamo almeno dal 2011 e che non sappiamo ancora dove ci porterà. Oggi, almeno, abbiamo il vantaggio di aver capito chi sta dettando le regole, chi l’agenda, chi le parole d’ordine e le regole d’ingaggio.
I numeri ci raccontano di un Partito Democratico che perde 3 milioni di voti rispetto alle politiche 2013, e addirittura quasi 6 rispetto alle europee del 2014. Quando, in un fugace quanto salvifico momento, la speranza era rappresentata dalla novità di Matteo Renzi, la cui leadership appare oggi già vecchia e scaduta. Ma ci dicono anche che alla sinistra del Pd i voti restano quelli: sia Sel, pur in coalizione; sia la lista L’Altra Europa alle europee; sia Liberi e Uguali hanno preso 1 milione di voti. Mentre il Movimento 5 Stelle passa da 8,7 milioni a 9,8 milioni; e la Lega Nord, partito morto nel 2013 con 1,4 milioni di voti, oggi ne prende oltre 5. E Berlusconi, il pivot della Seconda Repubblica, nonostante avesse provato a reinventarsi, passa il testimone a un leader più energico, più vitale, più in forma e più capace di intercettare un paese sommerso e rancoroso. Quel leader doveva essere Matteo Renzi, per tutta una serie di motivi. Invece, è l’altro Matteo. Siamo nel mondo a venire, e le categorie con cui lo abbiamo sempre guardato fino a ieri non sono più adatte per interpretarlo.
Il problema della sinistra non è stato solo nell’assenza di proposte, nella carenza di leadership, nella scarsissima qualità di una classe dirigente, nell’incapacità di intercettare un cambiamento che lasciava moltissimi fuori dalla competizione, non essere stata in grado di aggiornare la sua piattaforma allineandola allo spirito del tempo. Il problema della sinistra non è stato la mancanza di risposte, ma essersi fatta per vent’anni le domande sbagliate e essersi fatta — sia nella sua versione “di governo”, sia nella versione “di strada” — dettare l’agenda dagli altri. Non aver acceso una speranza, non aver dato una prospettiva, non aver rassicurato (anche con parole e gesti di rottura forte e di discontinuità rispetto a un passato fallimentare) attraverso l’invenzione di un futuro in cui credere e per cui lottare.
Bisogna inventare il futuro e lasciar perdere tutte le ricette che si sono provate in passato. Altrimenti quello che intendiamo come sinistra, sarà sempre più sinonimo di conservazione. Gli equilibri cambiano. Le leadership si rinnovano. I progetti muoiono da un giorno all’altro. Ma da oggi siamo finalmente in un gioco diverso. Perché oggi è nata la Terza Repubblica, un luogo inesplorato, tutto da costruire. Ma il partito — o, per meglio dire, l’idea — che più di tutti doveva esserne il perno è morto
Adesso inizia una lunga traversata. Qualcuno rincorrerà le chimere di una fantomatica unità, riproponendo l’eterno “cantiere” della sinistra. Qualcun altro ha già lanciato il guanto di sfida dimostrando di voler restare centrale. E ci sarà chi nella speranza di intercettare uno spazio politico confuso e fluido, cercherà di sparigliare. Del resto, circa il 17% dei voti che ha perso il Partito Democratico è andato al Movimento 5 Stelle, che nell’ultima settimana di campagna ha presentato un esecutivo in potenza che rispecchiava più l’anima “progressista” di un partito né di destra, né di sinistra ma che nell’ultimo periodo, sopratutto sui temi della sicurezza e della migrazione (centrali in questa pessima campagna elettorale), si è dimostrato molto spostato a destra. In questo momento lo spazio non c’è ma quei voti, e soprattutto quelle domande, da qualche parte, dovranno (e vorranno) andare.
La rinascita della sinistra (o come la vorremo chiamare) sarà lunga e non sarà esente da vittime. Anche illustri. Perché questo dato elettorale segna una sconfitta che è soprattutto culturale. Va riconquistata l’Egemonia, sbarazzandosi di qualsiasi subalternità. Non un fardello del passato, ma l’unico modo per entrare dentro il tessuto connettivo di un paese sfibrato, declassato, confuso e spaventato ma al tempo stesso consapevole di chi voler votare per affidarsi a una alternativa (anche se gli scenari di governo sono tanti e non si risolveranno facilmente). Bisogna inventare il futuro e lasciar perdere tutte le ricette che si sono provate in passato. Altrimenti quello che intendiamo come sinistra, sarà sempre più sinonimo di conservazione. Gli equilibri cambiano. Le leadership si rinnovano. I progetti muoiono da un giorno all’altro. Ma da oggi siamo finalmente in un gioco diverso. Perché oggi è nata la Terza Repubblica, un luogo inesplorato, tutto da costruire. Ma il partito — o, per meglio dire, l’idea — che più di tutti doveva esserne il perno è morto. Morto sull’altare di progetti che non è stato in grado di portare a compimento. Morto per le ambizioni troppo grandi e non allineate alla tempra e alla cultura morale di una classe dirigente inadeguata. Morto perché non è stato in grado di vedere il mondo a venire rifugiandosi nell’eterno presente che non ha appassionato nessuno. Il voto di ieri è rabbia, risentimento, reazione, ma non è più pancia, non è più improvvisazione, non è più casualità: è ricerca di una risposta. Saranno anni difficili. Sta a noi, da oggi, ragionare sulle domande che vogliamo farci domani.