Funzionava così. Le canzoni si incidevano in studi di registrazione, su registratori a più tracce. Si tendeva a incidere molta più musica di quanta poi se ne sarebbe utilizzata, lasciando che i musicisti, perché un tempo c’erano pure i musicisti, sì, seguissero la loro ispirazione, o quella di chi era lì per occuparsi del vestito da dare alle canzoni, il produttore artistico, l’arrangiatore. Alcune idee venivano fuori direttamente in studio, molte rimanevano lì dentro, a beneficio solo di chi era presente e aveva avuto la fortuna di ascoltare qualcosa che da lì non sarebbe mai uscito. Comunque la durata di una canzone era dettata, prevalentemente dalla canzone stessa. Anche nel pop, che partiva per sua stessa natura come un genere commerciale poteva capitare di ascoltare una canzone più lunga del previsto. O più corta. Figuriamoci nel rock o in altri generi che non partivano da gabbie o canoni fissi.
Una canzone, in studio, poteva anche durare sette, otto minuti. Tanto poi sarebbe arrivato lui a aggiustare le cose. Il lui in questione aveva un ruolo specifico e di conseguenza un nome specifico. Mr Fade Out. No, non è che si chiamasse realmente Mr Fade Out. Ma il suo ruolo, in fase di missaggio, cioè in quella fase successiva alla registrazione in cui i suoni vanno equilibrati, amalgamati, in cui la canzone diventa appunto canzone, scusate la semplificazione estrema, era quello di occuparsi del Fade Out. Lui, Mr Fade Out, si occupava solo di questo.
Arrivava a missaggio praticamente finito, e lavorava al Fade Out, sfumava la canzone. Sì, se siete donne e uomini del Novecento sapete bene di cosa sto parlando, perché un tempo le canzoni sfumavano, non finivano in maniera netta. O almeno non sempre. Ricorderete, si partiva con un assolo, spesso, o con un giro di cori che riprendevano il ritornello, e la canzone cominciava a sfumare, i volumi si abbassavano, lentamente. Ma non a caso. Lo scopo del Fade Out, infatti, non era quello di trovare un finale che al momento mancava, anche perché poi quelle stesse canzoni, dal vivo, un finale lo avevano. No, lo scopo era sfumarle per farle rimanere in testa il più a lungo possibile, anche dopo che la canzone era in effetti finita. Per questo c’era qualcuno specializzato solo in questo. Perché quella specializzazione era preziosa, al pari di molte altre tra quanti operavano in studio di registrazione, musicisti in testa.
Le radio hanno cominciato a diventare sincronizzate, con tempi ingabbiati in meccanismi ben precisi, e le canzoni hanno cominciato un po’ tutte a seguire quei canoni. Almeno quelle che a finire in radio ambivano. Tre minuti e mezzo, prima. Tre minuti e quindici, poi. Senza sfumati, ma con finale netti. Tanto i dj, o gli speaker che dir si voglia, avrebbero parlato sul finale, fornendo una sfumatura personale, anche non richiesta
Poi, un bel giorno, e si leggano queste parole con sarcasmo, qualcosa è cambiato. Le radio hanno cominciato a diventare sincronizzate, con tempi ingabbiati in meccanismi ben precisi, e le canzoni hanno cominciato un po’ tutte a seguire quei canoni. Almeno quelle che a finire in radio ambivano. Tre minuti e mezzo, prima. Tre minuti e quindici, poi. Senza sfumati, ma con finale netti. Tanto i dj, o gli speaker che dir si voglia, avrebbero parlato sul finale, fornendo una sfumatura personale, anche non richiesta.
In molti hanno guardato a questa nuova usanza con sospetto, inizialmente, non sgomento poi. Ignorando che il futuro ci avrebbe risultato qualcosa si assai più orribile. Perché se da una parte le radio hanno iniziato a dettare delle regole, dalla durata, appunto, ai BPM, traduciamolo sommariamente Battiti per minuto, cioè il ritmo a cui le canzoni devono suonare, stabilendo una soglia minima, la stessa soglia che ha portato i lenti, così si chiamavano un tempo, le ballad a uscire quasi totalmente di scena, dall’altra è stata proprio la maniera di fruire la musica che è radicalmente cambiata. Sapete tutti cosa è successo, riassumerlo in un articolo sarebbe ingeneroso nei confronti dell’orrore della storia.
Prima si è passati dall’analogico al digitale. Poi è arrivata la musica liquida. L’MP3 da condividere, più o meno legalmente. La morte del cd. Lenta ma inesorabile, come solo la morte sa essere. L’arrivo quindi dello streaming. Spotify, ma anche tutto il resto. La morte del download, altrettanto inesorabile, anche se non ancora del tutto avvenuta. Che messa così sembra la scena del video di Right Here Right Now di Fatboy Slim in cui l’uomo passa da scimmia a homo sapiens via via fino a oggi. Questi cambiamenti, proprio come per l’uomo del video, non sono stati semplici, hanno comportato modifiche genetiche della musica, soprattutto di quella che ambisce a essere contemporanea, e di essere supportata in tutti quei mezzi che oggi vengono prevalentemente utilizzati per l’ascolto. Cioè, se un tempo qualcuno è caduto dalla sedia di fronte alla stereofonia, quella diavoleria per cui ascoltando una canzone con due casse davanti, alcuni suoni uscivano da una cassa, altri dall’altra, figuriamoci di fronte a quei suoni che si spostavano da una cassa all’altra, poi ci si è visti costretti a ragionare su musica che avesse senso dentro uno walkman, da alta a bassa fedeltà, senza però necessità punk o minimaliste, solo una mera faccenda di supporti. Oggi siamo di fronte a musica pensata per essere suonata da uno smartphone.
Ma la musica non è una guerra, e neanche una sfida sportiva. Non ci sono buoni o cattivi. Solo buona e cattiva musica, o per dirla con le parole di oggi, la bella musica e la musica demmerda
Se chiedessero a Mr Fade Out di sfumare una di queste canzoni, sono pronto a scommetterci, si mangerebbe le mani pur di negarsi, un po’ come fanno le donnole quando rimangono incastrate nelle tagliole dei bracconieri, che si mangiano le zampe da sole al fine di scappare.
In questi giorni escono articoli che parlano della chiusura dell’ultima fabbrica di CD negli Stati Uniti, del rischio di chiusura della Gibson, una delle più importanti fabbriche di chitarre al mondo, dell’ipotesi che Apple chiuda iTunes, lasciando allo streaming il compito di veicolare tutta la musica. Notizie che sarebbero potute essere serenamente l’incipit di questo articolo. Oppure, pensandoci come a una sorta di resistenza, tipo Morpheus e Neo in Matrix, avremmo potuto parlare di chi oggi fa musica alla vecchia maniera, resistendo appunto, dai Decibel che si presentano a Sanremo con un album tutto suonato senza plug-in e sequenze a Ron che porta sul palco una canzone senza click, o, uscendo dall’Italia, da Kendrick Lamar che appunto sui bassi sta basando buona parte del suo mondo musicale, o di un Frank Ocean che ha posto la chitarra, sì proprio la vecchia chitarra, al centro del suo universo musicale oggi. Ma la musica non è una guerra, e neanche una sfida sportiva. Non ci sono buoni o cattivi. Solo buona e cattiva musica, o per dirla con le parole di oggi, la bella musica e la musica demmerda.
Una musica che non faccia di necessità virtù, come magari può essere in passato accaduto al blues, suonato con primordiali strumenti a corde e percussioni dagli afroamericani, ma che si adegui a una povertà sonora senza provare a forzarla è una musica agonizzante, col respiro affannato, destinata a morte certa. Senza voler fare di tutta l’erba un fascio, che i fasci li si vede bene solo a Piazzale Loreto, penso che questo momento di decadenza non possa che rappresentare il punto più basso di una caduta, dal quale non ci si può che rialzare. Magari ipotizzando una musica non fatta per essere incisa, ma solo suonata dal vivo. Come del resto è stato per buona parte del transito terrestre del genere umano (cit.).
O per un doppio binario che proceda parallelamente, da una parte musica demmerda fatta per supporti demmerda, dall’altra musica ambiziosa, non necessariamente in alta fedeltà, ma comunque non schiava dei supporti con cui andrà riprodotta, che provi a aggirare il problema di una congiuntura astrale che da una parte ha reso tutta la musica ascoltabile con un click e dall’altra ha reso la qualità di questi ascolti misera e miserevole, e provi, di conseguenza a rimanere fino a dopodomani. Perché dal supporto fisico al supporto liquido al supporto gassoso il passo è stato breve, ma dopo la vaporizzazione, temo, rimane la non materia.
Nell’incertezza la resistenza si sta organizzando: chitarre lasciate agli angoli della strada, sui gradini dei palazzi, alle fermate della metro, come il Book Crossing ha fatto coi libri.
Ecco, abbia inizio il Guitar Crossing, e che lo spirito di George Harrison non ci abbandoni.