Quattrocentocinquantatré. Questo il numero delle notifiche che si sono accumulate sul mio telefono nelle ultime 24 ore.
Sono lì, parcheggiate, iniquamente divise tra gruppi e conversazioni one-to-one. Le guardo e non le apro. Non riesco. Sono sopraffatta. Sono insofferente. Mi viene voglia di disinstallare whatsapp, di bruciare l’iPhone, di prendere baracca e burattini e trasferirmi in un eremo, a far marmellate, scollegata da tutti e da tutto. Chi mi ama mi segua e tutti gli altri scivolino pure, una buona volta, nel silenzio. E ora, che mi sono sfogata coltivando queste bucoliche prospettive di una vita off-line che — mi rendo conto — essere per me impraticabile, perlomeno al momento, posso darmi un contegno e spiegare da dove provenga tutta questa spocchiosa intolleranza verso uno strumento tanto comodo e tanto utile, come il più popolare sistema di messaggistica istantanea contemporaneo: Whatsapp, per l’appunto.
Innanzitutto, usando una delle argomentazioni più in voga per legittimare anche l’esistenza della bomba atomica: il problema non è lo strumento in sé, ma il modo in cui le persone decidono di usarlo. Qualche anno fa, quando ci sembrava ancora una svolta avveniristica questo fatto di non pagare i messaggi, a noi che eravamo cresciuti con la Vodafone Friends (avendo cioè MASSIMO 4 numeri con i quali comunicare più o meno sempre, più o meno gratuitamente), non avrei potuto immaginare un risvolto macabro in un simile, evidente, progresso tecnologico. Oggi lo vedo, e lo detesto.
Detesto il fatto che su whatsapp viaggino indistintamente comunicazioni di ogni genere: professionali, private, sentimentali, familiari, politiche, sessuali. Detesto la difficoltà che faccio a concentrarmi sulla realtà che vivo, perché sono costantemente chiamata a rispondere in un altrove virtuale che mi segue ovunque, perennemente: quando lavoro, quando dormo, quando espleto i miei bisogni fisiologici sulla tazza del cesso. Detesto il fatto di dover rispondere il prima possibile a tutti, che se no sembro una stronza, o una cafona, o una inaffidabile. Detesto il fatto che mentre non visualizzo c’è qualcuno che nota che sono “online” e rosica perché lo ignoro. Detesto, d’altra parte, il fatto che se scrivo a qualcuno che è online e che mi ignora, rosico. Detesto dover fare training autogeno ripetendomi: “Ehi, stai tranqui, magari c’è una spiegazione plausibile come per esempio che quella persona STA FACENDO ALTRO”.
Detesto il fatto che esista la possibilità di “nascondere” le doppie spunte blu e l’orario di accesso. Ma perché devo nascondermi? Ma da cosa? Ma da chi? Ma sarà pure mio diritto decidere come e quando usare questo strumento? Ma sarò pur libera di non attivarlo per 10 ore senza che qualcuno mi immagini vittima di una terribile disgrazia? Senza che nessuno mi accusi di “coma”? Senza che nessuno ironizzi sul fatto che “tanto quella risponde tra una settimana”? Detesto il fatto che sui tempi di reazione via whatsapp si decidano i destini dei flirt, e la serenità delle relazioni. Detesto il fatto che le dinamiche dei gruppi d’amici si esplichino su whatsapp a suon di esclusioni e abbandoni.
Il problema non è lo strumento in sé, ma il modo in cui le persone decidono di usarlo. Qualche anno fa, quando ci sembrava ancora una svolta avveniristica questo fatto di non pagare i messaggi, a noi che eravamo cresciuti con la Vodafone Friends, non avrei potuto immaginare un risvolto macabro in un simile, evidente, progresso tecnologico. Oggi lo vedo, e lo detesto
Detesto il fatto di dover silenziare gruppi che mi intasano di notifiche, perché abbandonarli “sta male”. Detesto il fatto di essere aggiunta in gruppi che mi interessano meno degli sviluppi della love-story tra Chiara Ferragni e Fedez. Detesto il fatto che in questi giorni post-elettorali io debba essere a conoscenza dei voti, delle opinioni, dei commenti, dello SPAM di certi contatti, tra cui uno che ha dichiarato di aver votato CasaPound, e l’avevo lasciato renziano convinto (questo per dire che l’elettorato schizofrenico è ovunque intorno a noi). Detesto il fatto che le mie amiche primipare siano state moralmente obbligate dalle ostetriche a creare il gruppo whatsapp del corso pre-parto, perché è fondamentale, che vi credete, mò fa parte dell’esperienza della maternità pure quello, chissà com’hanno fatto per secoli a figliare senza neppure condividere emoticon e messaggi vocali.
Detesto il fatto di avere gli ARRETRATI su whatsapp, di svegliarmi ogni mattina e scoprire una quantità di notifiche che potrebbe causare, da sola, un #whatsappdown. Detesto il fatto di scusarmi se rispondo con un giorno di ritardo a un messaggio che NON era urgente e anche il fatto che sia un flusso inarrestabile che si insinua nella nostra vita come un torrente in piena. Su Facebook, perlomeno, andiamo noi a leggere le minchiate che la gente scrive; su whatsapp la gente le scrive proprio direttamente a noi, con l’aggravante che è “gente” che conosciamo pure. Ci pusha, come direbbero i signori del marketing, e lo fa con un meme, con un link, con uno screenshot. Oppure con duemila screenshot da interpretare. Oppure con frequenti note vocali che, a seconda dei casi, sono lunghe 7 minuti e mezzo, oppure sono 70 note in successione, di massimo 11 secondi l’una, che quando le vedi sul display provi lo stesso affaticamento che proveresti all’idea di scalare il K2. In alternativa, ci inviano tonnellate di user generated content (pensieri, fotografie, video, selfie, selfie con le smorfie, selfie con le faccine di snapchat)…che generalmente ti fa rimpiangere quel tempo in cui il content lo producevano i professionisti, non gli utenti.
Detesto la smania maledetta, la velocità, la sete insaziabile di opinioni su qualunque cosa, che ci infesta la vita di stupidità, nostra e altrui; detesto il fatto che il malcostume dei social abbia contagiato i nostri amici e sia sfociato nelle nostre tasche, nelle nostre borse, sui nostri comodini; detesto il fatto che nella fretta di prendere una posizione su qualunque cosa, non abbiamo il tempo di documentarci su un cazzo. Detesto il fatto che vorrei sottrarmi a tutto questo e non ci riesco, e mi sento come se uscirne fosse impossibile, come se disinstallare l’app fosse una decisione troppo radicale. “In fondo, è comoda”, mi dico, subito dopo essermi detta: “Adesso basta, passo a Telegram”, sentendomi Giovanna D’Arco, come se il solo pensiero di poter rompere le catene di questa prigionia mi desse la forza per sopportarla ancora.
Va pure detto che sarebbe uno sbattimento, perché tutti usano whatsapp, perché li tagli fuori, perché comunicare con te diventa più macchinoso, meno immediato e ormai viviamo quasi esclusivamente nell’immediatezza e per l’immediatezza. Ma pure perché Whatsapp, in sé, oggettivamente, è davvero comodo. È una figata. Siamo noi che lo stiamo rendendo un lavoro non retribuito, una sanguisuga di tempo che sottraiamo ad altro (ma se quelli che vi erogano lo stipendio sapessero quanto tempo passate su whatsapp durante la giornata, secondo voi, continuerebbero a pagarvi?), investendo tempo/umore/energia in un surrogato di relazione interpersonale, un espediente per riempire vuoti che andrebbero colmati con altro (e non è necessariamente un’allusione sessuale, vanno bene pure i libri, i concerti, la palestra); ci illudiamo di parlare e non parliamo, ci illudiamo di sapere e non sappiamo, siamo soffocati dal nostro stesso zelo comunicativo quando invece, pensate quanto sarebbe bello tornare a comunicare meno, e a comunicare meglio.
Whatsapp, in sé, oggettivamente, è davvero comodo. È una figata. Siamo noi che lo stiamo rendendo un lavoro non retribuito, una sanguisuga di tempo che sottraiamo ad altro investendo tempo/umore/energia in un surrogato di relazione interpersonale, un espediente per riempire vuoti che andrebbero colmati con altro
Così, mi ritrovo a guardare con ammirazione quelli che eliminano whatsapp dal novero delle proprie app, oppure quelli che non hanno, per scelta, la connessione dati sul cellulare, e li ammiro nello stesso modo in cui ammiro i vegani: comprendendone le ragioni e senza sposarne le cause. Perché poi, la verità, è che ci sono dentro, fino al collo. Che sono un prodotto perfetto del sistema che critico. Che alla fine whatsapp lo uso per capire cosa pensa la gente oggi, cosa dice, come si esprime. Perché è evidente che la gente “parli” più su whatsapp che nella vita reale. Poi magari sono io che ho amici sfaccendati, fancazzisti, sociopatici e opinionisti, ma non credo sia un caso isolato. E, d’altra parte, se stai scambiando opinioni con qualcuno nella vita reale, difficilmente hai il tempo di discutere per ore online con qualcun altro (che sia su whatsapp, su Telegram, o nei commenti di Facebook). Se conversi con la persona con cui condividi il pasto, a cena, non hai bisogno di avere il cellulare accanto al tovagliolo.
E in questa costrizione, che soffro e alla quale non mi ribello, finisce che, pur odiandolo, di Whatsapp non mi libero. Mi limito a trovare una soluzione alternativa (o paracula che dir si voglia), una exit-strategy eticamente sostenibile:
1. LIMITARLO (se perdo ogni tanto 2 ore in una discussione va bene, ma è ovvio che non può succedere spesso, nella vita devo e voglio fare altro: uscire, camminare, lavorare, guardare un documentario, pulire casa, incontrare persone)
2. GOVERNARLO (cercare di ridurre le conversazioni a scopi pratici: quando ci vediamo, dove ci vediamo, a che ora arrivi; per tutto il resto, come stai, come sto, cosa penso di questo e cosa pensi tu di quello, quanto siamo cambiati e quanto siamo rimasti uguali, ecco per il resto c’è la vita, il mondo esiste ancora, se solleviamo lo sguardo)
3. OTTIMIZZARLO (usarlo, cioè, per gli amici che praticamente non posso vedere, non per quelli che se volessi vedrei e se non li vedo forse una ragione c’è)
4. SOSTITUIRLO (con le telefonate, le video-conferenze e le serate/weekend/viaggi insieme…che pare una retorica terribile da articolo dell’Huffington Post, ma purtroppo è vero: le relazioni, i dialoghi e i confronti hanno bisogno anche di umanità, di essere cioè intrapresi e sostenuti da esseri umani in carne, ossa, capelli, baffi, peli, sudorazioni, aliti, sguardi, gesti. Persone cazzo, non profili.
Sia chiaro, questa ricetta (che è la mia, discutibile e al tempo stesso insindacabile) non incontra mica il favore di tutti, prova ne è il fatto che un mio amico, indignato dalla mia latitanza sul popolare medium, mi scrive su un altro canale per chiedermi “Allora? Cagami, stronza! TI DEVO MANDARE UN SMS?!”
Insomma, è la prova definitiva, è questa la strada giusta: colpirne uno per educarne cento.