Scommettiamo che, 1995 Veronica Castro (tutti, in tutto il mondo, la chiamano la regina delle telenovelas) è ospite d’onore. Chiacchiera. Canta O Sole Mio. Subito dopo, Fabrizio Frizzi apre il salotto con gli altri ospiti della puntata e, rivolgendosi ad Antonio Lubrano, dice: «questa è una canzone che lei pure avrebbe potuto cantare». Risposta di Lubrano: «Sono lieto che mi dia il Lei: meno male! Quest’abitudine che avete, nel mondo dello spettacolo, di darvi il tu…». Fabrizio Frizzi era formale, ma con calore: questo era il suo talento principale e il suo tratto, la sua firma. Era un talento invisibile e trasparente, di quelli che è facile semplificare e a cui è, forse, inevitabile cambiare il nome, la posizione. Il garbo, la gentilezza, la bonomia che stiamo raccontando ora che è morto – e l’Italia, tutta intera, sente di aver perso “uno di famiglia” -, erano facoltà di questo talento così insolito. Formalità calorosa sembra un ossimoro e invece era la disposizione precisa che guidava Fabrizio Frizzi a incamminarsi verso il pubblico, nel modo in cui abbiamo scritto e pensato tutti quanti e cioè “in punta di piedi”. E con le braccia spalancante.
Era – ed è – difficile accorgersene, osservare con attenzione l’abbraccio continuo nel quale stringeva i telespettatori e capire che non aveva bisogno di empatia, per avvicinarsi, sentirsi e farsi prossimo: si serviva delle formule canoniche (il lei, la precedenza, la giacca, il sorriso cordiale). La regola della prossimità non è necessariamente l’empatia (quanto la predichiamo, non sarà troppo?): Fabrizio Frizzi lo abbiamo sentito vicino, di casa, di famiglia (“lo zio di tutti” è uno dei commenti più frequenti su Twitter) soprattutto perché ci teneva tutti alla stessa distanza. È a questo che serve la formalità: a garantire che a tutti vengano riservate cura e accortezza, in misura eguale e indipendentemente da chi sono.
È una dote fraterna; un modo di riconoscersi alla pari con gli altri e di riconoscere gli altri tutti alla pari. Il lei che Frizzi dà a Lubrano è identico spiccicato a quello che dà agli italiani che incontra per strada e che coinvolge nelle prove di una sigla di Miss Italia. Era impossibile non sentire il suo affiatamento con chi aveva intorno, estraneo o meno che gli fosse: l’otteneva costruendo uno spazio privilegiato e circoscritto nel quale era chiaro che lui, lì dentro e solo lì, per il pubblico, avrebbe fatto qualsiasi cosa e che qualsiasi cosa si può fare con le buone maniere. Quello spazio era la televisione: lì ci faceva entrare e, rendendola familiare e affettuosa, ci faceva sembrare che avvenisse il contrario, che fosse lui a entrare nel nostro salotto e a farlo da amicone, fratellone, zione, ragazzone. Giorgio Cappozzo, autore tv, ha scritto: “Non era un eterno ragazzo: era un serissimo professionista, adulto anche nei sentimenti”.
È vero, ma non possiamo biasimare nessuno se il ricordo di Fabrizio Frizzi assomiglia più a quello di un parente che di un conduttore, né tantomeno possiamo vedere, in questo, un disconoscimento delle sue qualità professionali. Lo spettacolo popolare riesce quando non sembra solo uno spettacolo, quando fa pensare a com’è il cuore di chi l’ha fatto prima che al talento, allo studio, alla fatica, all’abnegazione (tutte cose di cui ci si rende conto dopo, chi lo sa se è un bene o un male, se è decisivo o trascurabile).
Giancarlo Magalli ha detto: “Per me era un fratello, ma lo era anche per il pubblico: significa che ha lavorato bene”.