Il bunker di Renzi si chiama Senato

Matteo non si rassegna. Coi gruppi parlamentari imbottiti di suoi fedelissimi è pronto a dare battaglia in un eventuale futuro congresso Pd. Sempre ammesso che l'elezioni non lo salvino

TIZIANA FABI / AFP

“Se vado a casa con il Pd al 20 per cento? Non ci penso neanche”. In questa risposta di Matteo Renzi c’è molta tattica e, insieme, una dichiarazione d’intenti. La tattica riguarda un’esperienza che ancora fa male, molto male, al leader del Pd. La campagna referendaria e la famosa personalizzazione, ritenuta dai più uno dei motivi (se non il principale motivo) della disfatta del 4 dicembre 2016. Quel famoso “se perdo lascio la politica” è stata un’arma utilizzata dall’opposizione per mobilitare i cittadini contro le riforme costituzionali, e, ancora oggi, è un efficace strumento di campagna elettorale. Quindi meglio evitare l’effetto scaturito un anno e mezzo fa da dichiarazioni così compromettenti.

Renzi esclude un suo passo indietro anche in caso di sconfitta catastrofica, cioè se la caduta del Pd dovesse raggiungere (si fa per dire) il 20% o giù di lì. Che significa più o meno la metà di quel 40% che ha rappresentato la cifra simbolo del renzismo, sia quando si è dimostrato vincente (elezioni europee del 2014), sia nel momento della sconfitta più cocente (referendum costituzionale, appunto). Ma dietro questa presa di posizione non c’è solo una scelta strategica. Quel “non me ne vado” è un messaggio ai suoi oppositori interni, quelli di oggi e quelli che inevitabilmente si faranno avanti domani se le cose dovessero precipitare.

Il messaggio lo chiarisce Matteo Orfini, presidente del partito e, per ora, fedele alleato del segretario. «La natura del Pd, per scelta di Veltroni e Prodi, è quella di un partito in cui le scelte non le fanno Orfini, Renzi, Veltroni, Prodi e altri dieci leader, ma le fanno gli elettori. Il Pd resterà così com’è anche dopo il 4 marzo. Se dovessimo cambiare leader lo sceglierà il popolo del Pd, non un caminetto». E’ un caso che il presidente dem, impegnato in una difficilissima campagna elettorale nelle periferie di Roma est, abbia fatto i nomi di Veltroni e Prodi? No, tutt’altro.

Il fatto politico degli ultimi giorni, infatti, accolto con mal celato fastidio dal Nazareno, è il moltiplicarsi di endorsement dei cosiddetti “padri nobili” per Paolo Gentiloni. Napolitano, Prodi, Veltroni, per ultimo Enrico Letta stanno apertamente sostenendo che il futuro del Pd non possa prescindere da un impegno in prima persona dell’attuale presidente del Consiglio. Il più velenoso – e non è una sorpresa, visto il trattamento ricevuto ai tempi dello “stai sereno” – è stato proprio Letta, che ha fatto sapere di sostenere convintamente «Gentiloni e la coalizione che lo sostiene». Nessun riferimento al Pd né, tanto meno, a Renzi. E c’è chi comincia a vedere in questa crescita esponenziale di “discese in campo” un tentativo di dare forma all’architrave del Pd, o addirittura del centrosinistra, che verrà. Magari con il contributo fondamentale di Dario Franceschini nelle vesti di reclutatore di truppe parlamentari, di Carlo Calenda come homo novus e di Nicola Zingaretti come volto vincente di un Pd al minimo storico di gradimento.

Stanno tutti cercando di posizionarsi in modo da poter dire “io l’avevo detto” e addossare così la responsabilità di una possibile disfatta tutta su Renzi

Posto che se il Pd riuscirà ad ottenere un (al momento improbabile) buon risultato elettorale, l’aria si rasserenerebbe immediatamente, al Nazareno si stanno preparando al peggio. «Gentiloni è solo una pedina da mettere in contrasto con Matteo», ci spiega una fonte sempre aggiornata sul Renzi-pensiero. «Stanno tutti cercando di posizionarsi in modo da poter dire “io l’avevo detto” e addossare così la responsabilità di una possibile disfatta tutta su Renzi». Un’operazione per mettere il segretario nell’angolo, anche perché «è da escludere che lui possa chiudere la campagna elettorale indicando Gentiloni come candidato premier, come suggerito, più che altro, da alcuni opinionisti sui giornaloni».

È chiaro, comunque, che il giorno dopo un risultato “da minimo storico”, si aprirebbe una fase completamente nuova e la cosa più probabile – seguendo il ragionamento di Orfini – è che le richieste di congresso anticipato si facciano incessanti. Richieste che un Renzi indebolito dal risultato elettorale faticherebbe ad arginare. «Matteo – spiega la nostra fonte – non ha ancora davvero preso in considerazione l’ipotesi, perché è realmente convinto che i sondaggi, anche quelli riservati che sta ricevendo in questi giorni, sottostimino il Pd. Ma se le cose dovessero andare veramente male, con i Cinque Stelle primo partito e la destra così forte da poter formare un governo, prenderà atto della situazione e non si tirerà indietro».

Sono in molti infatti a pensare che, dal giorno dopo il voto, il centro nevralgico del renzismo si sposterà dalla sede del Pd a quella del (un tempo tanto odiato) Senato. Qui la pattuglia sarà piena di colonnelli fedelissimi al segretario

E’ su quel “non si tirerà indietro” che rimangono aperti gli interrogativi più pesanti. Le opzioni sul piatto sono almeno tre.

La prima è che Renzi faccia davvero un passo da parte, lasciando strada libera ad un nuovo corso. «Questo, sinceramente, è lo scenario meno probabile dato che Matteo non si ridurrà mai a fare il parlamentare senatore semplice. Anche perché i gruppi a Montecitorio e, soprattutto, a Palazzo Madama saranno imbottiti di suoi fedelissimi. E se li ha messi lì non è certo perché vuole svernare in buona compagnia». Sono in molti infatti a pensare che, dal giorno dopo il voto, il centro nevralgico del renzismo si sposterà dalla sede del Pd a quella del (un tempo tanto odiato) Senato. Qui la pattuglia sarà piena di colonnelli fedelissimi al segretario: insieme all’ex sindaco di Firenze ci saranno, giusto per citare i nomi più influenti, Matteo Richetti, Francesco Bonifazi, Andrea Marcucci, Giuliano Da Empoli, Tommaso Nannicini, Davide Faraone, Ernesto Carbone, Simona Malpezzi, Dario Parrini, Alessandro Alfieri.

Una sorta di fortino, che lascia pensare a un Renzi ancora pienamente in partita. Resta da capire come deciderà di continuare la sua battaglia. Giocarsi ancora tutto, affrontando di nuovo la competizione interna del congresso e delle primarie? Oppure mettere a frutto il suo capitale politico per dare vita al progetto mai sopito di una sorta di En Marche italica (In Cammino esiste già nella galassia delle sigle renziane), lasciando agli avversari interni la bad company di un Pd perdente e indebitato fino al collo? «Impossibile da dire in questo momento, sono troppe le variabili legate al voto che si capiranno solo dal 5 marzo in poi. Quel che è certo è che chiunque volesse davvero mettersi in gioco contro di lui lo dovrà fare mettendo in conto che poi, anche nel caso in cui riuscisse a prevalere al congresso, si troverebbe a dover fare i conti con gruppi parlamentari ostili».

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