Come era prevedibile, l’onda del movimento #MeToo, partita con ottime intenzioni, sembra essere un po’ sfuggita di mano. Non tanto perché, nata come una denuncia degli abusi psicologici e fisici subiti dalle donne sul posto di lavoro, si sia trasformata in una denuncia degli abusi subiti ovunque. E nemmeno perché la sua celebrazione sia avvenuta in programmi televisivi ad ampia audience (gli Oscar, i Golden Globe: del resto è nata dal mondo del cinema), in cui a lottare per i diritti erano donne ricchissime e di successo, mentre altre vittime di Harvey Weinstein – quelle che il lavoro l’hanno perso davvero – non sono state né invitate né nominate. No. È sfuggita di mano perché adesso, secondo alcuni studiosi, anche Gesù Cristo sarebbe stato vittima di abusi e violenze sessuali.
La tesi, discussa su The Conversation, illustra come anche Gesù, durante il martirio sulla croce, sia stato privato dalle vesti. Un momento documentato da Matteo, Marco e Giovanni (Luca tralascia): una volta crocifisso, i soldati romani, gli strapparono i vestiti e se li divisero tra loro. Quella, a loro avviso, è la prova di un abuso di tipo sessuale.
Ma è così? Secondo Giovanni, 19, 23, “I soldati poi… presero le vesti di Gesù, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo”. Lo conferma Matteo, 27, 33: “Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte”. E anche Marco, 15, 22: “Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso”. Insomma, anche se è ovvio che il supplizio inflitto a Gesù Cristo non sia stato né volontario né consensuale, appare ardito pensare che quella dei soldati romani fosse violenza sessuale, anche intesa in senso lato. Per almeno due ragioni.
La prima è che, come tramandano le Scritture, i soldati sembrano essere interessati più ai vestiti di Gesù che alla sua nudità. Se anche fosse ipotizzabile – come invece assumono i due studiosi – che la nudità fosse parte integrante del supplizio della croce, la chiave non sta tanto nel suo carattere sessuale, quanto nel fatto che, per un re (e Gesù si era proclamato re), essere privo dei vestiti (ultima forma di difesa e di prestigio) costituisse il massimo dell’umiliazione.
La seconda è che nei testi non è registrata, nemmeno di sfuggita, alcuna allusione a possibili contatti fisici, a sguardi, ad abusi che non siano le violenze, già piuttosto cruente, a cui viene sottoposto Gesù Cristo. È forse una censura che agito nel tempo, come sembrano suggerire gli studiosi? Sembra difficile, dal momento che la storia della croce, proprio come la figura stessa di Gesù, potrebbero essere tutta un’invezione. Insomma, non si può parlare di fatti storici se non si ha la certezza che lo siano stati.
In ogni caso, nonostante gli effetti rischino di vanificare tutto, l’intenzione della ricostruzione proposta dai due studiosi è buona: risvegliare le gerarchie ecclesiastiche, finora forse troppo fredde, perché si esprimano in favore delle donne maltrattate sul luogo di lavoro. E pazienza allora se #JesusToo, come hashtag, non presenta nessun riscontro testuale. Quello che conta, come sempre in fatto di religione, è lo spirito.