Carico di figli di Calabria, un vecchio treno – il Pellaio – ha risalito la costa jonica e poi su su fino all’adriatica ed oltre, per esportare in tutta Europa lavoratori e uomini d’onore. Sulle panche di quel treno non hanno viaggiato solo i calabresi laboriosi diretti a Wolfsburg, la città della Volswagen; quella era un’emigrazione di poveracci. Con il tempo anche le ‘ndrine sono salite sui convogli da emigrazione e lo hanno fatto per sete di potere, non certo per bisogno.
E così il Pellaio ha portato i dritti di paese in luoghi inesplorati in cui le comunità italiane si erano radicate da decenni grazie alla fatica e nonostante i pregiudizi. È stato ciò che è accaduto a Bratislava. Anche lì nella Repubblica slovacca sono arrivati i reggini e gli affiliati delle ‘ndrine di cui si stava occupando Jan Kuciak, il giornalista slovacco ucciso con la fidanzata Martina Kusnirova il 27 febbraio. Gli affari loschi legati ai fondi agricoli concessi dall’Ue in quei territori e alcuni nomi che suonano calabresissimi tra gli appunti della sua ultima inchiesta pubblicata da Aktuality.sk.: quello di Antonino Vadalà, definito imprenditore agricolo, immobiliare ed energetico. Vadalà è lo stesso cognome ricorre anche nelle inchieste della procura di Reggio Calabria sulle famiglie operanti nella zona di Bova Marina.
Gli uomini descritti nell’inchiesta del giovane giornalista ucciso giravano in Ferrari e Lamborghini a Trebisov, uno dei sobborghi più poveri della Repubblica slovacca. Loro sono tra quei calabresi che hanno scelto la strada dei malandrini e non quella dei Papula. Per capire la differenza tra queste due vie dovrete leggere il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco, colui che ha raccontato la ‘ndrangheta al mondo con Anime nere. Criaco è tornato in libreria l’8 marzo con La maligredi (ed. Feltrinelli). Un romanzo di ‘ndrangheta? Forse, ma di certo un racconto su ciò che poteva essere e non è stato. La storia di come si sia potuti arrivare all’omicidio di Jan e Martina in una nazione lontana e straniera. È una pagina di storia della Calabria oscurata perché troppe sono le responsabilità che vi sono racchiuse e poi perché la storia la scrive chi vince. “E gli africoti in quell’occasione hanno perso, ma non si sono mai arresi”, sostiene l’autore.
Quindi la rivolta delle gelsominaie è un fatto reale?
Quella lotta anarchica di donne e ragazzi c’è stata anche se quasi nessuno la conosce. È stata una ribellione partita dai ragazzi e abbracciata dalle madri di Africo e dei paesi vicini negli anni ’60. Non è vero che siamo solo un popolo da cronaca nera e dalla storia ignobile, quello fu un momento in cui tutto sarebbe potuto cambiare.
Invece hanno vinto i padroni e i calabresi sono rimasti sutta?
Se quella rivoluzione avesse vinto la ‘ndrangheta sarebbe stata emarginata. All’epoca era ancora un fatto marginale perché tutti avevano coscienza di cosa era giusto e di cosa era sbagliato. Poi forse da immorali coscienti si è diventati amorali e si è persa la consapevolezza.
La Maligredi è un ritorno alle radici, ad Africo, è casa…
Sì e l’ho fatto perché a 10 anni dall’uscita di Anime nere (Rubbettino) volevo raccontare l’altra parte della storia. Questo romanzo è sia i prequel che il sequel di quello lì. Là c’era una generazione che usciva dall’Aspromonte come una falange armata e distruggeva tutto, compresa se stessa. Stavolta invece ci sono i vinti, quelli che non racconta mai nessuno. Ci sono quelli che hanno scelto di costruire. Sono tornato ad Africo nel mio mondo per raccontare che non è vero che tutti i calabresi si sono consegnati al male.
Non è una visione un po’ troppo epica, in fondo dopo la rivoluzione è arrivata la distruzione come racconti in Anime Nere?
No, perché anche se quella parte di Calabria ha perso non è morta.
Quando scrivi: “Noi non ci siamo mai sentiti schiavi, abbiamo lottato sui monti e non ci lasceremo piegare davanti al mare” intendevi questo?
Ci si può confondere e pensare che quelle idee di libertà siano venute da fuori. Nella realtà non è così. C’è stata una tradizione di “ribellismo” del Meridione e aspromontana. Sono delle pulsioni che ci sono sempre state e le rivolte si sono rincorse nella storia.
La storia che racconti ne contiene almeno tre, quella dell’emigrazione, quella dei malandrini e quella di un sogno sfumato…
C’è però un elemento che le unisce tutte. È la storia della forza delle donne: al fondo di tutte le decisioni c’è questo mondo delle madri che si ritrova compatto per tentare di dare ai figli un futuro migliore. Sono state loro molto più dei padri che sono del tutto assenti, perché morti, in carcere o all’estero a lavorare.
L’altro grande assente sono lo Stato e la legge… Lo dici chiaramente quando scrivi: “L’unica cosa dello Stato che funzionava senza errori era il convoglio (il Pellaio che conduceva gli emigranti all’estero, ndr)
I calabresi non hanno mai avuto quel padre che cercavano nello Stato. Anzi anche lo Stato è stato un padre assente o morto. Uno Stato assente vuol dire un essere costretti ad affrontare le ingiustizie da solo con le proprie forze.
Quindi i calabresi sono degli orfani di Stato?
È così e lo dimostrano anche le elezioni. C’è un popolo che si sente messo da parte, che però non si arrende e cerca di lottare. La storia vera è che gli africoti (i calabresi) forse hanno perso quella battaglia, ma non hanno mai dichiarato resa. Anche nel libro si lotta fino all’ultimo rigo.
Sì ma diventa una guerra fratricida…
La maligredi, la maledizione a questo ha portato. Per millenni si è cercato di evitare una lotta del genere, ma forse è inevitabile. Quella parte interna che tradisce, anche se stessa, non può essere eliminata che con la lotta e quest’ultima non può prescindere dal versamento di sangue
È la nota nera che esce sempre fuori nei tuoi libri, forse perché non cerchi un lieto fine
C’è la scrittura che è poetica, da favola, ma c’è anche questo senso della tragedia che arriva a far scorrere il sangue fraterno, dei figli della stessa comunità anzi della stessa madre: l’Aspromonte.
Tu hai mai desiderato di essere un dritto?
Chi è nato e cresciuto in quei posti – nessuno escluso – ha sentito almeno una volta nella vita il canto delle Sirene. SI tratta però di un canto di morte. È impossibile non sentirlo. La forza delle donne e di personaggi come Papula è stata quella di spiegare l’inganno.
Per Nicola, Antonio e Filippo, i tre africutelli protagonisti del libro il richiamo è stato spezzato da Papula, questo personaggio dalla favella incredibile. A te chi lo ha svelato l’inganno?
Persone come il Papula che descrivo, persone come la ngura Cata che ti spiegava cos’era il bene e cos’era il male. Sono stati dei buoni maestri che hanno piantato un seme. Alla fine anche per quelli che si sono persi ci sono state però persone che hanno lottato non solo per cercare di creare un mondo diverso, ma anche per fare capire dove stavano i frutti buoni e dove quelli cattivi. Persone che hanno operato per svelare l’inganno. Un inganno ordito dal potere locale ma che veniva poi messo in pratica da dritti e malandrini, dal sistema criminale mafioso che era al servizio di questo potentato.
Il tuo Papula è Rocco Palamara, oggi un settantenne all’epoca dei fatti un giovane anarchico autodidatta
Lui è un samurai, ma non come quelli giapponesi che hanno un padrone. L’unico padrone che riconosce il samurai aspromontano è l’idea di libertà. Di una lotta che finirà solo quando si conquisterà la libertà.
O per una maledizione?
Il vero delitto e la vera sconfitta di quel mondo è questa distruzione della comunità. La maligredi è questa maledizione.
Più che una distruzione è stata un’autodistruzione…
Sì, la Calabria sta morendo per estinzione. Ma la maligredi è anche una metafora del popolo Meridionale. È la storia della lotta di un popolo che non si è asservito al potere, che lo ha cercato di contrastare a mani nude senza aiuto esterno, perché lo Stato non c’era o quando era presente stava con gli altri.
I malandrini?
No quelli sono uno strumento del vero male della Calabria, del Meridione: i potentati politici locali.