L’ultimo colpo al derby lo ha lanciato il Sole 24 Ore, domandandosi come sia possibile che all’Inter venga permessa l’iscrizione al campionato, nonostante i debiti. Ora, tralasciando per un attimo alcuni appunti squisitamente tecnici che si possono fare – ad esempio, cercando di capire quale diretta consequenzialità ci sia tra il patrimonio netto negativo e il dover portare subito i libri in tribunale, o il non considerare che il bond da 300 milioni di euro sia stato accolto favorevolmente, a meno che si stia decidendo di gettare soldi in una società che cola a picco, mah – quanto uscito in edicola è l’ennesima spallata vibrata non tanto a un club, volendo, ma alla metà di quel cielo che una volta brillava in Italia e in Europa e che la cui audience negli anni pare ormai passata, per dirla con Camilleri, dall’appizzamento di orecchie al blando interesse.
E sarà stato anche per questo che l’altra metà del fu illuminato cielo ha qualche giorno fa pubblicato – con una dovizia di particolari di solito propria dei club quotati in Borsa e per questo ammirevole – i dati della prima semestrale totalmente cinese. E questi dati del Milan dicono che le cose non vanno così male così come potevano suggerire gli allarmi di una possibile colata a picco della nuova gestione italo-cinese rossonera: l’indebitamento finanziario netto è sì ancora con il segno meno davanti, ma è già in diminuzione rispetto all’anno prima, segno che non bisogna mai farsi ingannare dalle cifre che girano per il mercato, ma è sempre bene attendere gli effetti delle spese (e delle entrate) a livello contabile. E anche l’Inter intanto ha chiarito la propria posizione.
Insomma, Inter e Milan stanno cercando una propria dimensione, per riportare il derby a quello che era il Derby e non una gara che ora sembra essere fuori dai circuiti di un qualsiasi Clasico. E i club milanesi cercano, come visto dai numeri di cui sopra di ripartire prima di tutto lontano dal campo, cioè lontano da dove una volta Milano spadroneggiava. Risulta ormai un puro esercizio doloroso riavvolgere il nastro al lontano 2003, anno in cui le milanesi davano vita a un derby in semifinale di Champions che avrebbe lasciato l’amaro in bocca – doppio, perché non si salì sull’aereo per Manchester con due pareggi – alla parte Bauscia di Milano. Poi il Milan ha avuto altre due fiammate europee, la bruciatura della fatal Istanbul e la gloriosa rivincita di Atene, mentre l’Inter passava attraverso la polvere post-Calciopoli per costruire la seconda Grande Inter, quella del Triplete e contro ogni prostituzione intellettuale. Roba da Mourinho, uomini forti per destini forti.
Nel frattempo però il calcio stava cambiando e a noi, a Milano e in Italia, qualcosa stava sfuggendo. Sapevamo benissimo che quello di Atene era un Milan con i capelli ormai bianchi, ma siamo andati avanti. Sapevamo altrettanto bene che era Mou il filo, anzi la cima, che teneva tutto legato e che quando avrebbe sciolto il nodo con Appiano, tutto avrebbe perso compattezza, ma ok. Così siamo arrivati al 2014 ammirando le spagnole di Madrid dare vita a Lisbona al primo derby in finale di Champions della capitale iberica: materassai contro la Real casa, roba da matti, anzi no, noi con Bauscia e Casciavitt queste cose le facevamo in semifinale e poi ai quarti non molto tempo dopo. Ci siamo stretti nell’orgoglio di quello che eravamo e anche allora sapevamo benissimo che qualcosa ci era ormai sfuggito. E due anni dopo, alla finale di Champions organizzata a Milano, le due milanesi l’Europa l’hanno vista a casa, sul divano. Ad ammirare di nuovo Atletico e Real sfidarsi nel segundo derby europeo in finale.
Una volta qui era tutta una Milano da bere, la moda, i grandi capitani d’industria soli al comando di qualunque plancia. Poi il modello è cambiato, si è evoluto. E coloro i quali rappresentavano quella Milano nel calcio hanno ceduto la plancia
Del perché sia successo tutto ciò, cioè di cosa ci sia sfuggito nel frattempo, lo scopriamo non appena vediamo quel che succede negli altri grandi campionati: grandi giocatori, stadi pieni, investitori forti che propugnano vari modelli di gestione spesso e volentieri vincenti. O quantomeno in grado di mantenere una grande squadra in Europa con continuità: una vittoria, se ci riuscissero oggi le due milanesi. La solfa la conosciamo bene: il calcio si è globalizzato. Ognuno si è aperto al mondo a modo proprio. In Spagna il modello dei grandi azionariati ha saputo vendere il proprio marchio, il brand, attirando investitori, quindi soldi, quindi acquisti ma anche organizzazione, che senza quest’ultima puoi comprare chi vuoi ma rischi di cadere e farti male molto velocemente. In Inghilterra il sistema calcio ha dato vita a un campionato che di fatto è un format ad uso e consumo della televisione e dei social: anche qui significa creare una calamità che porta investitori, soldi, etc. In Francia il Psg è diventato arabo, diventando una squadra-volano per l’organizzazione del Mondiale del 2022 in Qatar: il modello è quello glocal, cioè quello che prende una città (quindi una dimensione locale) e ne fa modello di espansione verso un mercato più ampio.
Milano, da questo punto di vista, è ancora al punto di partenza. Anche nella vecchia cara capitale economica del Paese le cose sono cambiate. Una volta qui era tutta una Milano da bere, la moda, i grandi capitani d’industria soli al comando di qualunque plancia. Poi il modello è cambiato, si è evoluto. E coloro i quali rappresentavano quella Milano nel calcio hanno ceduto la plancia. Berlusconi ha venduto, preceduto da Moratti. Entrambi ai cinesi, accopagnati da indonesiani in uno dei due casi. Ora, non è certo una questione di Cina, se oggi il derby appare più appannato. Certo, a differenza degli arabi, che il calcio lo maneggiano da un po’ più di tempo, per i cinesi il pallone è già qualcosa di più nuovo e inesplorato, così come inesplorato è il nostro pallone, un terreno vergine (rispetto agli altri grandi campionati s’intende) da coltivare per farlo tornare grande.
Al momento però, il calcio milanese fatica a tenere il passo della nuova Milano, la Milano che vuole diventare la nuova Londra e che per questo è entrata in un nuovo cosmopolitismo fatto di investimenti arabi e cinesi che ne stanno ridisegnando la silhouette, pare con un certo successo: laddove era tutta una foto del Colosseo e dei Fori Imperiali, oggi se su Instagram non hai postato almeno una volta i nuovi scintillanti palazzoni tra Porta Nuova e Porta Garibaldi non sei nessuno, per non parlare della riscoperta dei Navigli e dell’hashtag #BellaMilano: ad affermare che Milano è bella, fino a qualche anno fa, ti avrebbero guardato con sopracciglio che avrebbe battuto per altezza quello di Ancelotti.
Ma non che da parte delle due squadre manchi l’impegno. Anzi. L’Inter sta tenendo fede al proprio nome nel rendere più internazionale il proprio brand, con un’attività social ogni anno più interessante (e che ha contribuito ad avere anche più presenze medie a San Siro), così come il Milan non si sottrae a una presenza digital costante. Eppure manca qualcosa, a questo derby.
Forse perché è stata l’Asia ad arrivare qui prima che accadesse il contrario: le squadre inglese – sempre loro, of course – hanno aperto vie commerciali e Academy verso i nuovi mercati in tempi non sospetti, così come hanno cominciato a sfruttare da tempo calciatori, sia in attività che ex, per andare in quei nuovi mercati a farsi conoscere.
Qui è successo il contrario, con ad esempio Suning che cerca nell’Inter una chiave di sviluppo del proprio brand in Europa, con benefici a cascata per il club nel lungo periodo. Ed è successo non mentre Milano è già diventata la nuova Londra, ma mentre cerca di esserlo. E allora, la cattiva notizia: serve ancora tempo, per creare quella che gli esperti chiamerebbero la “sinergia”. Non diciamolo troppo ai tifosi nerazzurri, che già da qualche stagione attendono il rilancio definitivo della beneamata, così come i rossoneri (però almeno loro vanno a giocarsi una finale di Coppa Italia). Nel frattempo, almeno a San Siro, si prevede il tutto esaurito. Bella la Scala del calcio così. Come una volta. Ripartiamo da qui.