Chi non fa parte del business o dell’isteria fashionista, dichiara di non seguire la moda. E poi invece mette pantaloni corti e larghi che stanno male a tutte, gonne rigonfie (idem), patchwork improbabili (colpa di Miuccia Prada che teorizza l’estetica del brutto e di Gucci che mescola tutto con tutto). Questo per dire che la moda ci riguarda in ogni caso, in termini di stile o di fatturato. E la domanda che serpeggia – se la sono fatta molti in coda, al gelo, in attesa di entrare da Prada o da Armani è: che futuro ha Milano, schiacciata tra New York, Londra e Parigi? Con un calendario compresso e così tanti malumori che vari stilisti (non soltanto Dolce & Gabbana) hanno preferito sfilare fuori (e…chi mi ama mi segua)?
La Fashion week appena conclusa snocciola i suoi numeri (buoni): 64 sfilate, 91 presentazioni, 3 presentazioni su appuntamento, 155 collezioni e 28 eventi. Il calendario era 20-26 febbraio, ma lo show vero e proprio è cominciato il 21 (il 20 era in passerella soltanto Moncler) e lunedì 26 erano rimasti solo tre brand mentre buyer e giornalisti facevano le valigie per Parigi, perciò se la matematica non è un’opinione, i giorni veri sono cinque, di cui tre concentratissimi con undici-tredici sfilate-maratona al giorno, dalle 9,30 alle 20 con ritardi medi di quaranta-cinquanta minuti.
Perché allora non facciamo come i francesi? Il loro calendario è 27 febbraio- 6 marzo (il 26 c’era solo Jacquemus che pure è interessante) e dentro, con calma, ci stanno tutti, gli intellettuali come Dries Van Noten e i brand storici come Kenzo, i mostri sacri come Dior, Chanel, Vuitton, Hermés, le snob come Isabel Marant, i supertrend come Balenciaga, gli enfant prodige come Simon Porte e quelli un po’ più polverosi. I francesi hanno fatto sistema, noi no. E hanno comprato, tanto: Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta (che ha scelto di sfilare a New York per l’autunno-inverno), Brioni, Loro Piana e due brand di gioielli, Bulgari e Pomellato. Alcuni nomi sono scomparsi dal radar: Romeo Gigli, considerato un genio, Gianfranco Ferrè, passato a Paris Group Dubai e poi chiuso (le sue meravigliose camicie si possono vedere soltanto in mostra), Mariella Burani, fallita, Costume National, venduto ai giapponesi. Non che ci sia soltanto un elenco di morti e feriti. Alcuni talenti sono emersi, uno per tutti l’italo-haitiana Stella Jean, c’è la lodevole iniziativa del green carpet (abiti ecosostenibili) ma i nomi che contano sono, alla fine, sempre gli stessi: Armani, Versace, Missoni, Etro, Blumarine, Alberta Ferretti, Max Mara, Marras, Dolce &Gabbana e ovviamente Gucci che sotto la direzione creativa di Alessandro Michele scandalizza, sorprende, spiazza. L’ultima trovata macabro-chic è quella delle modelle con una riproduzione realistica della loro testa mozzata sottobraccio, criticata da Giorgio Armani: “Se la moda è questo gioco, io lo abbandono”.
L’ultima trovata macabro-chic è quella delle modelle con una riproduzione realistica della loro testa mozzata sottobraccio, criticata da Giorgio Armani: “Se la moda è questo gioco, io lo abbandono”
La lista delle polemiche tra fashion star è lunga. C’è la volta che Roberto Cavalli paragona il nuovo, lussuoso eppur minimalista hotel Armani a un ospedale psichiatrico. E accusa Gucci di averlo copiato. C’è la volta che re Giorgio sbotta: “Non c’è bisogno di caricare le donne di ricami, frutta e verdura” (leggasi Dolce& Gabbana). Per non parlare delle frecciate a Gianni Versace con la sua moda esasperatamente sexy.
Non è che i direttori creativi americani o francesi si amino follemente, al contrario si criticano e si detestano come tutti ma senza dichiararlo, e possono anche allearsi, se è il caso, in nome di un bene superiore: iI fatturato. Vent’anni fa New York non era così importante e Milano era al centro dell’universo, poi la potentissima, ecumenica Anna Wintour, direttrice di Vogue, che si fa fotografare con la regina Elisabetta e con il cardinale Gianfranco Ravasi, ha lavorato per sostenere il “sistema” americano (giustamente, dal suo punto di vista) e la Grande Mela si è fatta spazio. La sua idea di ridimensionare l’Europa è vecchia. Già nel 2003 sosteneva che Milano meritava tre, al massimo quattro giorni per vedere i nomi giusti (Miuccia Prada era già la sua beniamina): non si sarebbe fermata più di tanto. Un putiferio. C’era chi voleva costruire un calendario che la obbligasse a restare e chi pretendeva di esserci nei giorni in cui avrebbe garantito la sua regale presenza.
Armani poteva tenerle testa, troppo grande, troppo importante economicamente (tolse anche la pubblicità a Vogue a un certo punto) per piegarsi alle sue esigenze/capricci, altri meno. C’erano scene pazzesche per averla, attese di oltre un’ora perché venisse a occupare il posto rimasto vuoto nella sala già piena (lei aveva un impegno, o forse doveva soltanto fare la piega, chissà) .”Il diavolo veste Prada”, non è folklore, è cronaca. Wintour pensava lo stesso di Parigi, ma i francesi l’hanno ignorata. Hanno sparpagliato nella settimana i loro nomi di punta, e chi c’è, c’è. La linea dura ha dato risultati, mentre Milano si è (in)volontariamente ridimensionata.
La velocità è diventata insostenibile. Il “see now, buy now”( vedi il vestito in passerella e lo prendi subito dopo) è un gioco al massacro. Lo reggono in pochi. Dopo la sfilata, i blogger postano le immagini degli outifit che saranno in negozio tra sei mesi così, quando ci arrivano, sembreranno vecchi. I social hanno amplificato la moda, ma la visibilità sta diventando un boomerang
In questo momento Parigi è un laboratorio, impegnata a fare trasfusioni di creatività a brand prestigiosi ma anemici: cambia i direttori creativi, rinnova. Demna Gvasalia (François-Henri Pinault l’ha chiamato alla guida di Balenciaga) ha creato “Vêtements”, ha arruolato un sociologo, l’ha mandato a interrogare la gente per sapere come vuole vestirsi, ha sfilato in un club gay e in un ristorante cinese. Cultura sovversiva, underground, casting selvaggio sui social. Il dissacrante Gosha Rubchinskiy, profeta dello street post-sovietico (ha iniziato lavorando sul look dei suoi amici skaters) fa sfilare ragazzi pasoliniani. Tutti gridano al genio (e qualcuno parla di rara bruttezza). Emerge la multitasking Lotta Volkova: lavora con Rubchinskiy, è editor di diverse riviste, studia le subculture, stravolge gli schemi. E tutti adorano Simone Porte che ha lanciato Jacquemus a 19 anni (adesso ne ha 28) ed è poetico, commerciale, concettuale, social.
Tra liti, crisi, battibecchi, Milano ha una Fashion Week rispettabilissima, ma in difesa. Le modaiole meno giovani rimpiangono quando c’era il pieno di feste e celebs, Naomi Campbell, bellissima, faceva i capricci (mai avuto un buon carattere) e da Versace si presentavano Michael Douglas e Catherine Zeta Jones mano nella mano. Quando si sfilava nella vecchia Fiera dove era tutto concentrato, tranne i big. Quel mondo non c’è più, e basta sfogliare i giornali degli anni ’80 -’90 per avere nostalgia di Missoni che faceva impazzire con i suoi melange di maglia, Krizia che inventava la spallina tonda (ma anche gli abiti di pelle d’anguilla, non memorabili), Armani il power dressing, Versace la maglia metallica e il sadomaso chic, Laura Biagiotti “la bambola”. Oggi si vede molto remix, molto styling. Forse perché siamo al delirio. Quattro collezioni l’anno più le pre-collezioni, le seconde e terze linee, le capsule, i profumi e il make-up: un flusso costante di abiti, borse, scarpe, bijoux e rossetti scorre verso un mercato che, pur essendo avido, non sempre compra. La velocità è diventata insostenibile. Il “see now, buy now”( vedi il vestito in passerella e lo prendi subito dopo) è un gioco al massacro. Lo reggono in pochi. Dopo la sfilata, i blogger postano le immagini degli outifit che saranno in negozio tra sei mesi così, quando ci arrivano, sembreranno vecchi. I social hanno amplificato la moda, ma la visibilità sta diventando un boomerang. La rivista Dazed indica Instagram e gli influencer come una delle cause dell’accelerazione: le troppe foto lanciate in tempo reale suscitano desiderio immediato, ma anche assuefazione. Non c’è tempo di pensare, non c’è tempo di creare. Più che idee nuove, ci sono slogan, come gli abiti “anti-stupro” (ed è già polemica) di Prada, e le “fashion sinner” di Dolce& Gabbana. Qualcuno sostiene che non è rimasto più niente da inventare. Dopo la Morte dell’Arte e la Morte del Romanzo, la Morte della Moda. Ha ragione Fabiana Giacomotti con il suo libro “La moda è un mestiere da duri” che è anche diventato una t-shirt. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Milano, combatti.