È esplosa la bolla Calenda. La velocità con cui molti esponenti di primo piano del Pd si sono complimentati con il ministro dello Sviluppo economico per aver deciso di sciogliere le riserve e iscriversi (finalmente) al partito non è passata inosservata. “Non abbiamo bisogno di altri partiti – annuncia Calenda sulla sua piattaforma social preferita, Twitter – ma di lavorare per risollevare quello che c’è. Vado a iscrivermi al Pd”. In men che non si dica scatta l’applauso collettivo: da Paolo Gentiloni a Maurizio Martina, da Anna Finocchiaro a Matteo Richetti. “Grazie Carlo”, scrive semplicemente il presidente del Consiglio. Un fuoco di fila che, ad un certo punto, obbliga anche il segretario dimissionario Matteo Renzi a chiedere al suo portavoce di far sapere alla stampa che “è stato lui il primo a sentirsi con Calenda e ad apprezzare la sua decisione”.
Quella di Calenda, però, è solo la punta dell’iceberg. In queste ore nel Pd è in corso una febbrile attività di riposizionamento sommerso, dopo le dimissioni annunciate e subito congelate di Renzi. Lo stesso ex premier si muove da un estremo ad un altro, dimostrando di non aver ancora attutito la batosta elettorale. Calenda è un nuovo pezzo di un puzzle che si fa sempre più intricato, sopra il quale aleggia, sempre più incombente, la mite ma ingombrante figura di Sergio Mattarella. Di quanto le parole con cui Renzi ha annunciato il suo passo a lato fossero indirizzate in gran parte al presidente della Repubblica ha scritto ieri nel suo corsivo Francesco Cancellato. Semplificando: l’ex rottamatore considera le decisioni che Mattarella ha preso nell’ultimo anno e mezzo (il no alle urne dopo il referendum, l’insistenza con cui ha spinto all’approvazione di una legge elettorale rivelatasi un suicidio politico, il muro che il Colle ha alzato contro la sua iniziativa anti-Bankitalia) il motivo alla base della sua rottamazione. E ora vuole rendere difficile, difficilissima, la nascita di un nuovo governo in cui il Pd vada a fare da stampella al Movimento 5 Stelle.
Calenda è un nuovo pezzo di un puzzle che si fa sempre più intricato, sopra il quale aleggia, sempre più incombente, la mite ma ingombrante figura di Sergio Mattarella
La posizione intransigente di Renzi, insieme alla formula atipica scelta per l’uscita di scena, stanno provocando un terremoto nel Partito democratico. Le pattuglie si stanno organizzando per la grande battaglia, che comincerà lunedì in Direzione e sfocerà nell’Assemblea nazionale che dovrà convocare il Congresso anticipato. In questo contesto si possono individuare almeno quattro o cinque posizioni all’interno del partito, alcune ben delineate, altre dai confini più sfumati, tutte legate alla possibilità o meno di pensare ad un accordo con i Cinque Stelle e, al tempo stesso, alle mosse di Renzi.
La prima area, quella che numericamente fino al 4 marzo era la più numerosa, è quella renziani duri e puri, da non confondere con quella che oggi rappresenta la maggioranza del Pd in Direzione e in Assemblea nazionale. Quella maggioranza non c’è più e Renzi può contare su un numero di fedelissimi decisamente ridotto. Ora quel gruppo è una sorta di Giglio Magico allargato: Luca Lotti, Francesco Bonifazi, Maria Elena Boschi, alcuni cavalli di razza del renzismo neo-eletti in Parlamento come Giuliano Da Empoli e Tommaso Nannicini, il presidente Matteo Orfini, il segretario regionale toscano Dario Parrini, Anna Ascani, Alessia Morani, Andrea Romano, Gennaro Migliore e pochi altri. Uomini e donne che hanno legato il loro destino politico a quello del leader e che, fino a ieri, gli consigliavano ancora di ricandidarsi alle primarie che verranno. Oggi, visto il fuoco di fila partito contro il segretario, l’ipotesi di un’immediata (ennesima) ri-discesa in campo pare definitivamente messa da parte. Ma resta l’obiettivo irrinunciabile: far fallire qualsiasi tentativo di un governo con i Cinque Stelle, anche a costo di portare il partito al collasso.
La seconda area è quella dei renziani che condividono la linea dettata da Renzi ma che vogliono (o meglio volevano) un’uscita di scena immediata del leader. In questo gruppo ci sono due pezzi grossi della segreteria, il vicesegretario Maurizio Martina e il portavoce Matteo Richetti. Tra loro anche il ministro Graziano Delrio, un tempo uomo di fiducia di Renzi, ma con il tempo allontanatosi sempre di più. Ha fatto molto rumore la sua totale assenza dai corridoi del Nazareno nei giorni più duri della sconfitta. Non è un mistero che Delrio, e con lui Richetti, Martina e il piccolo drappello di parlamentari che fanno capo al ministro dell’Agricoltura, avrebbero preferito la nomina di un reggente per portare il partito al congresso.
C’è poi una terza area e qui cominciamo ad entrare nel cono d’ombra di Mattarella. È quella di Paolo Gentiloni, entrato definitivamente in rotta di collisione con Renzi, del ministro Marco Minniti e di Calenda. Anche qui un’intesa con i Cinque Stelle è vista come un’extrema ratio (non del tutto esclusa, se il Capo dello Stato dovesse fare pressioni forti, come per esempio è successo in Germania con Steimeier su Schulz) ma ciò che differenzia quest’area da quella di cui abbiamo parlato in precedenza è la durissima reazione alle parole di Renzi, che sono suonate come una bocciatura dello stesso governo Gentiloni. In quest’area inseriamo d’ufficio anche Walter Veltroni, che in campagna elettorale si era speso per il presidente del Consiglio. Oggi ha affidato il suo pensiero al fidato Verini: “Sono convinto che se non ci fosse stato in questo anno il lavoro di Gentiloni e dei ministri il drammatico risultato del Pd alle elezioni sarebbe stato ancora – se possibile – peggiore”.
La quarta area coincide con il pezzo di maggioranza che ha già abbandonato Renzi e che, parola del segretario dimissionario, “aveva già cominciato a trattare con i Cinque Stelle”. Il riferimento indiscusso di questo gruppo è Dario Franceschini, ritenuto l’inciucista per eccellenza. Le durissime parole usate da Renzi in conferenza stampa erano contro di lui, che, non a caso, è legato a doppia mandata con Mattarella. Il lapidario e immediato comunicato con cui Luigi Zanda ha bocciato il discorso dell’ex rottamatore è stata una vera e propria dichiarazione di guerra. Dalla sua Franceschini – che paga lo scotto di aver perso malamente la sua battaglia elettorale a Ferrara – ha un significativo numero di parlamentari di fiducia e, soprattutto, di delegati in Direzione e in Assemblea, il cui voto sarà decisivo per stabilire il futuro prossimo del Pd.
Orlando e Cuperlo starebbero facendo pressioni molto forti su Nicola Zingaretti, riconfermato presidente della Regione Lazio, unico volto vincente in questa drammatica tornata elettorale, affinché sciolga finalmente la riserva e decida di mettersi in gioco al congresso
Infine ci sono le minoranze. Quella di Michele Emiliano, che è stato il primo (al momento anche l’unico) a parlare esplicitamente di un appoggio esterno a Di Maio. E quella di Andrea Orlando e Gianni Cuperlo, che sostanzialmente hanno la stessa posizione di Franceschini: durissima nei confronti di Renzi e molto sensibile agli appelli del Capo dello Stato. Non è un caso che i nomi del ministro della Giustizia e quello dei Beni Culturali siano alcuni di quelli in lizza per ricoprire ruoli istituzionali nella legislatura che si è appena aperta. E non è un caso che proprio Orlando e Franceschini siano stati i principali alfieri – con la benedizione di Mattarella – della battaglia per introdurre le coalizione nella riforma elettorale. E ancora, non è un caso che i due stiano facendo pressioni molto forti su Nicola Zingaretti, riconfermato presidente della Regione Lazio, unico volto vincente in questa drammatica tornata elettorale, affinché sciolga finalmente la riserva e decida di mettersi in gioco al congresso.
Il primo appuntamento chiave per capire come evolverà la situazione nel Pd è la Direzione nazionale convocata da Matteo Orfini per lunedì prossimo. Per la prima volta dal 2013 la relazione introduttiva non verrà svolta da Renzi ma dal vicesegretario Martina. Segno che anche il segretario dimissionario si sta rendendo contro che gli equilibri stanno cambiando. In questa sede verrà decisa la formazione della delegazione che salirà al Colle per le consultazioni. Il tema però, al di là delle persone, è quello che riguarda la posizione che il Pd esporrà a Mattarella. Oggi la minoranza orlandiana si riunisce per decidere se presentare o meno un documento in cui mettere nero su bianco che non si preclude alcuna trattativa per la formazione di un governo. Una linea che sbugiarderebbe quanto sostenuto da Renzi e che, al tempo stesso, deve fare i conti con la composizione parlamentare del gruppo Pd, dove, soprattutto al Senato, il segretario dimissionario esercita ancora un controllo maggioritario.