Si sa che il romanzo, in quanto opera di fiction, ha sempre avuto l’ambizione paradossale di presentarsi come documento vero. La storia della letteratura è tappezzata di romanzi (creature di finzione) che fabbricano le prove documentali della loro esistenza nel mondo reale, il primo esempio che viene in mente sono i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, a detta dell’autore derivati da un manoscritto ritrovato. Ma si tratta di una costante, da Ariosto a Boiardo, a Cervantes.
E la blurred line tra oggettività e invenzione è molto più antica: è forse coessenziale all’atto stesso del narrare, ed è la sutura tormentata tra atto del pensare e atto del raccontare (non è Eraclito che definisce Omero: “Degno di essere scacciato dagli agoni e di essere frustato”, per aver dato spazio a fantasie, miti e tropi?) . Mettiamoci anche una situazione tipo dei dialoghi platonici: il riferirsi a un racconto antico, quasi perduto, ma ritrovato grazie alla memoria, come nel caso del Simposio.
Si arriva nello sperimentalismo contemporaneo perfino nella sua variante pop: il Manuale delle giovani marmotte dei fumetti Disney è uno pseudobiblion, un libro inesistente spacciato per vero nella finzione fumettistica, e poi pubblicato come libro vero. Esattamente come il Necronomicon, che H.P. Lovecraft attribuisce, all’interno del suo ciclo di racconti sui miti di Cthuluh, all’arabo pazzo Abdul Halazred.
Davide Brullo si innesta su questa tradizione letteraria con lo Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo apostolo a San Pietro (Melville Edizioni, euro 16,50) che ha appena ottenuto la nomination al Campiello.
La trovata è geniale. Si prende la (presunta, non chiara, ventilata, fumigata) controversia tra l’Apostolo dei gentili, e la pietra sulla quale è stata costruita la Chiesa di Cristo, e ci si costruisce sopra un apparato che va dalla storia del ritrovamento del manoscritto, alle note, comprensive di una questione teologica capitale, anzi centrale per il concetto stesso di cristianesimo. Ed è tutto inventato.
Brullo – poeta, traduttore da greco ed ebraico, critico letterario senza sconti per nessuno, nemici e amici – ha creato il caso letterario/filosofico/teologico perfetto, e ce lo serve in forma di romanzo. È uno Pseudo-Paolo che dice molte cose vere. È finzione che si presenta come verità e dice molte verità. È una costruzione che possiamo chiamare raffinata, ma giusto per restare nell’ambito della rappresentazione, del non-vero che aspira alla verità. Perché se dovessimo prenderla per vera sarebbe sconvolgente.
Un perfetto horror metafisico/teologico. Di cui, qui, vi anticipiamo una pagina.
PAOLO A PIETRO:
1 Dio preferisce gli imperfetti – i prodighi di vizi. 2 Da quando siete certi che aver conosciuto Gesù sia stata una grazia, la garanzia della consacrazione, 3 siete perduti, non diversi dai re del Tempio. Intingete la preghiera nel rancore – non siete indulgenti, ma dei legislatori. 4 Al contrario, la mia infermità, la mostruosità e la colpa sono un segno divino24.
5 So di vivere l’esilio: i giudei mi condannano, i confratelli mi invidiano, lapidano ingiurie. 6 Secondo Giacomo, “Paolo non è di Dio né di Cristo”: non ricorda che Gesù accade nello sconforto, nell’oscurità che bordeggia la morte25. 7 Ma Giacomo si riferisce a Gesù come a un caro amico scomparso, al fratello smarrito – non come a Dio. 8 E tu, Pietro, non fai parte anche tu della platea dei miei accusatori?
Dio concretamente rischia la morte
9 Cristo preferisce farsi rappresentare dagli inabili e dagli incapaci – eccomi. 10 Perché anche Cristo è stato considerato un deviato e un incapace, neppure in grado di incitare l’orda della rivolta26. 11 Dio è tanto debole da attendere l’approvazione di una inconsapevole vergine – se Maria non lo avesse accolto, Cristo non esisterebbe. 12 Di fronte ad Abramo come al cospetto di Maria: Dio accetta il rischio di sentirsi dire “no”, di essere disapprovato, il “sì” è una sorpresa inattesa. 13 Senza la concreta possibilità di morire per sempre, davvero, Gesù non sarebbe l’autentico Cristo27.
Note
24 Da sempre il “mostruoso” coincide con l’inspiegabile e il divino, con ciò che «va trattato con accuratezza e sospetto» (Paul Celan, Todesfuge). Tuttavia se la Bibbia è il libro granitico e grave della colpa e dell’esilio, ammette in- fermità e mostruosità come meri errori che Dio, a lui piacendo, saprà sanare. Nello pseudo-Paolo, che esaspera la “retorica dell’aborto” di San Paolo, «l’in- fermità non chiede cura, è essa stessa Dio. Il Dio incarnato porta una nuova idea di Dio, un Dio che inaugura la contraddizione come necessità, che ha sconfitto e sconfessato se stesso, trascinandosi dall’impassibilità alla morte» (Hermann Job, Terrible Bible, 2012, p.29).
25 Con atroce vertigine Fëdor Dostoevskij scrive, «devo desiderare il dolore, prego che mi sia assegnata la sofferenza: altrimenti come troverò Dio? Se non fossi trafitto dal male, se non desiderassi uccidermi in ogni istante, come potrei sentire la necessità della salvezza?» (“La questione del male: una rispo- sta”, in Diario di uno scrittore, aprile-maggio 1873, ed. it. 2002, p.331).
26 L’incapacità del Dio che si rivela Cristo è uno degli aspetti più urtanti della Lettera, che in qualche modo «continua l’opera dei torturatori di Gesù al Calvario, vuole assaporare i muscoli baluginanti, caldi, ne saggia l’intreccio con sadica sapienza» (Pietro Citati, “Una scoperta sconvolgente: il Paolo che uccise Gesù Cristo”, in “la Repubblica”, 08.02.2013, p.33).
27 Secondo Landolfi «questo è il passaggio più commovente della Lettera, il luogo in cui la riflessione teologica si fa più tenera e radicale, aliena dalle vacue polemiche, totalmente in ascolto di Dio» (Da Platone a San Giovanni, per un repertorio di fonti della “Lettera a San Pietro”, 2009, p.47). Il concetto è sostanzialmente ribadito da tutti gli studiosi che hanno curato l’edizione commentata della Lettera. Dio si spoglia definitivamente della propria divini- tà, cogliendo la sfida della morte: se l’uomo non avesse voluto accettarlo, Egli sarebbe scomparso, per sempre. «Con la resurrezione Dio non è più lo stesso Dio della rivelazione mosaica – è altro, e in modo definitivo. La resurrezione non è la ricomposizione dell’uguale o la riproposta del consueto, ma una al- terità, una alternativa. Nessuna teologia ha penetrato in modo soddisfacente questa verità: di fatto, i cristiani pensano che il Dio fattosi uomo sia stato un accidente, un eccellente diversivo, ma che in fondo Cristo sia lo stesso Dio di Abramo e di Giacobbe. Non hanno tratto le conseguenze dello shock – se non nelle forme sinistre ed eccessive dei marcioniti – della conversione subita da Dio dopo la morte e la resurrezione» (Joachim Scott, God is not God, 2001, p.11). Una linea di pensiero simile appare, al di là dell’opera di Marcione, per bagliori, nel monachesimo ortodosso del XIV secolo, in mistici esegeti come Teofane di Odessa (che scrive una efficace Ode sul Dio defunto) o Gio- vanni del Carmelo, nelle cui Omelie traspare spesso il concetto di «mortalità di Dio», e scrive che «Cristo si fa Eucarestia, corpo massacrato, sempre sulla soglia del ripudio: se l’umanità non lo dicesse, Egli, come già al cospetto di Maria, morirebbe; per questo, navigando tra i paradossi, è bene la bestemmia rispetto al nulla». Nell’epistolario paolino sono assenti riferimenti diretti a Maria in quanto Madre di Dio: in Gal 4, 4 si accenna al Figlio come al Dio «nato da donna». Pur tuttavia è questa la più antica testimonianza mariana del Nuovo Testamento. Con i Vangeli la figura di Maria diventa centrale, decisiva, ed è a tale tradizione che si riferisce, decisamente, lo pseudo-Paolo. In un particolare come questo si definisce la distanza tra discepolo e Apostolo, tra la copia e l’originale, e la sostanza della Lettera come un apocrifo.