Il bastone. Il punto è questo, ho capito. Adriano Sofri, noto carcerato dalla munifica biografia e dalla bulimica bibliografia, vorrebbe essere Roberto Calasso, gran khan in Adelphi, autore di libri vertiginosamente colti, disorientanti, eventualmente inutili. Si deve accontentare di essere l’Adriano Celentano delle patrie lettere. Non il cantante, per carità. L’oratore, piuttosto. Praticamente incolto, generosamente naif, è uno che dietro ogni parola sembra nascondere una clamorosa rivelazione, che dentro ogni silenzio pare celare l’enigma del mondo. Invece, oltre la masturbazione retorica il nulla. Una masturbazione filologica da filodrammatica, più che altro, è l’ultimo libro di Sofri, Una variazione di Kafka, che cita Calasso alla seconda pagina, olè. Calasso infatti è uno tra i tanti – tra i più autorevoli, dicono – che ha rimestato la penna nell’opera di Kafka: è autore del romanzo saggistico K. Una noia equina. Che pare un movimentato film di Tarantino, però, al cospetto della stramazzante ‘variazione’ di Sofri. Il libro – saggio? romanzo? passatempo? esegesi dell’ego di Sofri? buona l’ultima – funziona così. Sofri legge La metamorfosi di Kafka (meglio tardi che mai), “ventiquattresima ristampa” della Bur, anno 2001, l’ha pagata “2 euro”, beato lui. La traduzione è di Anita Rho. Seconda porzione del racconto più noto di Kafka. Anita Rho traduce “i lampioni elettrici della strada” come “tranvia elettrica”. Per chi conosce il tedesco: Anita Rho scambia il tedesco Straßenlampen (lampioni) per Straßenbahn (tram), piglia lampioni per tram. Possibile? La cosa manda in pappa Sofri, che comincia a smanettare su Google, cita una infinità di studi, passa attraverso diverse traduzioni (compresa quella di Jorge Luis Borges, che forse non è di Borges, che forse è stata copiata di sana pianta da un’altra) e speculazioni personali per scoprire, a pagina 78, che è Kafka, probabilmente, ad aver scambiato lampioni con tram dalla prima (1915) alla seconda (1917) edizione delle Metamorfosi.
A pagina 83 Sofri ci delizia con una battutina fuori contesto (“Tengo a non passare per un nemico delle élite e delle competenze, non so, un elettore di Trump, uno contrario alla vaccinazione”), a pagina 138 ci fa tracannare la patetica analogia tra il “mio fatto personale. Sono stato anni in una cella di galera” e la storia di Gregor Samsa (“Un animale umano chiuso in una cella si trova, a fare sonni agitati, trasformato in uno scarafaggio”), da pagina 143 a pagina 200, manco fosse Gianfranco Contini, parte una grandinata di Note, boriosamente eccessive. Tranne una. La nota che attraversa le pagine 174- 175 fa riferimento alla “mia piccola scoperta su Machiavelli”, cioè rimanda a un altro libro di Sofri, Machiavelli, Tupac e la Principessa, del 2013. L’avete letto? Ecco. Evitate. La congiunzione tra Machiavelli e Julian Assange (“Machiavelli è wikileakista a suo modo”), di basso borgo giornalistico, la lasciamo volentieri a lui. Come il resto del tomo. Prima di desiderare di essere Calasso, Sofri scimmiottava Leonardo Sciascia. Introdursi nelle faglie della Storia, lasciando suppurare le ferite con piglio cinico, nitido, manzoniano. Magari. La notte che Pinelli (2009) è didascalico piattume, letterario pattume (“C’è una stanza al quarto piano della Questura di Milano, è di Luigi Calabresi, un giovane commissario dell’Ufficio Politico, ha solo 32 anni. C’è un interrogato, un ferroviere di 41 anni, Giuseppe Pinelli”); mentre l’incipit di Reagì Mauro Rostagno sorridendo (2014) avrebbe potuto scriverlo il Colonnello Giuliacci, altro che Kafka, Calasso o Sciascia (“L’inverno del 2013- 14 era stato eccezionalmente mite, la primavera del 2014 è stata dispettosamente piovosa, freddina, e, a Trapani, ventosa. Solo a maggio il bel tempo ha prevalso”). Una variazione di Kafka, comunque, è il prodigioso emblema della tracotanza di Sofri scrittore (perché ulcerare la povera Anita Rho? Basta far la fatica di sfogliare il ‘Meridiano’ Mondadori che raduna i Racconti di Kafka, curato da Ervinio Pocar nel 1970, leggere La metamorfosi tradotta da Rodolfo Paoli, e accorgersi che i fantomatici tram sono tornati a essere “lampade stradali”). Lo ‘svarione’ traduttivo, lo ammetto, avrebbe permesso un magnetico racconto, sullo stile di Borges (vivacemente dileggiato nel libro). Invece, tutto si riduce, lo scrive Sofri, abusando della pazienza del lettore, a uno “scherzo”. Eccola, la parola emblematica. Scherzo. Per Sofri la Storia è la giocoleria del caso, la vita è un tiro a dadi, pietà e spietatezza sono lo stesso, la letteratura è uno scherzo. Per questo, il suo libro è, etimologicamente, una sciocchezzuola, una balordaggine. Una minchioneria.
Adriano Sofri, Una variazione di Kafka, Sellerio 2018, pp. 210, euro 14,00
La carota. Tra gli scrittori-che-hanno-fatto- gli-anni- di-piombo- e-sono-stati-in-carcere la mia predilezione, ne ho scritto abbondantemente, è per Enzo Fontana. Uno scrittore vero. Di cui andrebbe ripubblicato, almeno, il romanzo ‘dantesco’ – e applaudito dalla stampa patria – Tra la perduta gente, edito da Mondadori nel 1996. Sofri, per capirci, scrittore non è: è un impenitente flâneur che danza nell’immensa cattedrale del proprio orgoglio – se ne frega del lettore, perché milita solo per se stesso. Riguardo al genere ‘kafkiano’, invece, un libro formidabile è quello scritto da Gustav Janouch, che ha “conosciuto lo scrittore Franz Kafka nel 1920”, quando aveva 17 anni, ne fu folgorato e compilò un registro di quegli incontri, pieno di bagliori. Il libro, noto come Colloqui con Kafka secondo la traduzione di Ervinio Pocar (pubblicata da Aldo Martello nel 1953 e riproposta nel ‘Meridiano’ Mondadori dedicato alle Confessioni e diari di Kafka, del 1972) e Conversazioni con Kafka secondo la versione di Maria Grazia Galli edita da Guanda, è il miglior baedeker per entrare nell’anima tortile di Franz. A Kafka piace la compagnia di quel giovanotto, a cui elargisce, con severa tenerezza, affondi politici stupendamente profetici (“La Società delle Nazioni! Davvero è una lega dei popoli? Penso che il nome Società delle Nazioni mascheri soltanto un nuovo campo di battaglia… è un’organizzazione che serve a localizzare la battaglia”), consigli letterari (su Oscar Wilde: “qui tutto scintilla e invita come soltanto un veleno può scintillare e invitare… giocare con la verità significa giocare con la vita”), affilati aforismi da condividere tra affiatati (“L’uomo non può vedere tutto se stesso, perché vive nel buio”; “Non monti in collera, ma stia tranquillo. La calma è espressione di forza e anche attraverso la calma si può raggiungere la forza”).
La cosa più intrigante – ovvero, ‘romanzesca’ – è che ci fu chi dubitò che gli incontri tra Janouch e Kafka fossero realmente accaduti (tra questi, va annoverato il livido Max Brod). Questo renderebbe Gustav Janouch un formidabile falsario e un eccellente scrittore. Per altro, la figura poliedrica di Janouch – resistente al nazismo, dopo la Seconda guerra fu arrestato “da malevoli funzionari del passato regime”, in seguito fece fama “come compositore di musica leggera” – sta bene anche nell’improvvido puzzle libresco di Sofri. Janouch, infatti, scrive che “nel 1926 partecipai coi miei consigli all’edizione ceca del racconto La metamorfosi tradotto da Ludwig Vrána e pubblicato da Josef Florian”. Di che tipo sono questi “consigli”? Chi lo sa. Janouch è una figura da romanzo: per dissezionarlo non occorre riesumare Borges. Basta essere un artigiano della scrittura. Sofri non lo è. Nella vasta fiera dei nomi citati nel suo libro dedicato a sondare i traduttore de La metamorfosi, quello di Gustav Janouch manca.
Gustav Janouch, Conversazioni con Kafka, Guanda 1998, pp. 224