È che a noi ci ha fregato l’epica. O meglio, ci ha fregato l’epica dei cattivi, quella che va così tanto in voga ultimamente, che fa inneggiare per i protagonisti di Gomorra, come fossero eroi e non antieroi. Uno si è visto non so quante volte il Batman cavaliere oscuro di Christopher Nolan e si è convinto che i cattivi, in fondo, sono meglio dei buoni, e tende a fare incondizionatamente il tifo per loro. Anche se i cattivi, alla fine, fanno del male a noi stessi, danneggiano noi, ce la mettono in culo.
È dalla metà degli anni Ottanta, circa, forse anche un po’ prima, che l’idea che il male potesse vincere ha iniziato a farsi largo nel nostro immaginario, cominciando a abitare le stanze del manistream, diventandoci familiare. Chiunque di noi c’era prima ricorderà come un tempo, nei film come nei telefilm, che poi sarebbero il corrispettivo di quelle che oggi chiamiamo serie tv, la nuova letteratura, ricordate, c’era una netta distinzione tra bene e male, e di come, anche erroneamente, noi fossimo portati naturalmente per fare il tifo per i buoni, per immedesimarci coi buoni, anche quando in fondo buoni non erano. Era una questione di narrazione, ci raccontavano una storia in un determinato modo e di colpo gli indiani, cioè i nativi americani, quelli le cui terre erano state depredate e colonizzate dai bianchi, dai cowboy, diventavano i cattivi, e noi lì a fare il tifo per questi ultimi. Poi c’è stato Hill Street Giorno e Notte, una serie poliziesca ambientata a Los Angeles, nel distretto di polizia che prende il nome da questa strada, e di colpo abbiamo iniziato a familiarizzare con l’idea che i buoni non sempre avrebbero vinto. Anzi, lì erano quasi sempre i cattivi a vincere. Una costante che ha iniziato a farci vedere le cose con una prospettiva diversa. Nel mentre è arrivato George Lucas, con quel delirio del Lato Oscuro della Forza, e da allora nulla è stato come prima.
Insomma, un bel casino. Perché se il male poteva avere lo stesso fascino del bene, anzi, un fascino decisamente più potente, conoscete bene la storia del rock’n’roll e anche la faccenda delle cattive ragazze che non vanno in paradiso ma si divertono di più, facile che ogniqualvolta ci sia capitato, negli ultimi anni, di assistere a una situazione in cui qualcuno si è dimostrato più furbo delle regole, capace non solo di aggirarle, ma di sopraffarle, di piegarle al proprio volere, di mangiarsele e cagarle poi sul tavolo, in fondo abbiamo provato ammirazione per lui, anche se il tavolo su cui stava cagando era il nostro, in senso lato o in senso letterale.
Anche noi, del resto, vorremmo avere le palle per infrangere certe leggi che consideriamo stupide o ingiuste. Anche noi vorremmo essere sfrontati e spavaldi. Del resto siamo quelli che parcheggiano in seconda fila se non troviamo un posto, ma solo per cinque minuti, e ci incazziamo pure se ci fanno la multa.
Poco conta che, in realtà, Spotify, è di lei che vogliamo parlare, anche se poteva sembrare il contrario, abbia letteralmente inculato i cantanti, avendo concordato con le case discografiche delle royalities talmente esigue da essere calcolate in numeri decifrabili solo da supercalcolatori (come gli ultrasuoni che possono ascoltare solo gli animali)
Così quando sul volgere degli anni Novanta è arrivata questa diavoleria, così la definirono parecchi discografici dallo sguardo miope, chiamata Napster, in molti gridammo al miracolo. I cd stavano aumentando di prezzo, vuoi per il svorappezzo per la Pubblicità Televisiva, vuoi per l’ingordigia dei discografici stessi, l’idea che un ragazzino americano avesse trovato un modo di poter far viaggiare le musica gratuitamente da computer a computer ci è sembrata assai affascinante. Anche se in realtà, l’Italia è sempre stato un paese arretrato riguardo la rete, quasi nessuno da noi ne poteva usufruire, perché si navigava a pochi k col filo del telefono. Era un po’ come se ci fosse un Robin Hood che rubava ai ricchi e dava ai poveri, poco importa se non eravamo noi i poveri di turno. Poi è arrivato Emule, è arrivato Torrent, e è arrivato tutto quel che ha fatto seguito a quella che, legittimamente, veniva chiamata pirateria musicale. Mai come in quel momento abbiamo tutti fatto il tifo per i pirati, gente dotata del fascino di Kabir Bedi e poi di Johnny Depp, mica per caso. Ci siamo abiutati a non pagare la musica, e la musica è diventata giocoforza qualcosa di cui poter disporre gratuitamente, almeno quella incisa e da ascoltare in remoto. Le vendite dei cd sono iniziate a crollare, fino a che i cd non sono quasi scomparsi. Il download a pagamento ha superato le vendite del supporto fisico, con numeri che comunque sono cominciati a scendere sensibilmente. L’idea di pagare un file quando lo stesso file potevamo averlo gratuitamente è cominciata a diventarci naturale, perché, diciamocelo, un file mica è un oggetto, qualcosa per cui ci possono chiedere soldi.
Chiaro, questo è un ragionamento che hanno fatto coloro che sono arrivati a questo partendo dal vinile, o quantomeno dal cd. Cioè quelli che hanno visto la musica transitare da un supporto fisico a qualcosa di immateriale, perché le nuove generazioni non si sono mai affezionate a un supporto stupido e di così scarso valore (qualsiasi ingegnere del suono vi racconterà di come il cd è un supporto con cui ascoltare la musica peggiore anche dello streaming peggiore, e voi sapete bene quanto si ascolti di merda la musica con lo streaming, figuriamoci con lo streaming peggiore), per cui hanno iniziato a maturare l’idea che la musica fosse in effetti liquida. Lì, a disposizione, senza bisogno di possederla, di farne un oggetto. Lo streaming è arrivato quando già aveva attechito, filosoficamente, almeno in una intera generazione. Una generazione, quella degli adolescenti di oggi, che del resto si è sin da subito abituata all’idea di ascoltare la musica male, con le cuffiette, con lo smartphone, di merda.
Per questo quando poi lo streaming è in effetti arrivato, è sembrata una via di salvezza. Anche perché, rispetto alla pirateria, quantomeno lo streaming era legale. Una cosa che le società di streaming, Spotify in testa, avevano concordato con le etichette discografiche che, a loro volta, avevano concordato con gli artisti. Insomma, una nuova formula adottata dalla discografia.
Poco conta che, in realtà, Spotify, è di lei che vogliamo parlare, anche se poteva sembrare il contrario, abbia letteralmente inculato i cantanti, avendo concordato con le case discografiche delle royalities talmente esigue da essere calcolate in numeri decifrabili solo da supercalcolatori (come gli ultrasuoni che possono ascoltare solo gli animali). Poco conta che le case discografiche, gestite da manager che preferiscono l’uovo oggi che la gallina domani, abbiano sostanzialmente svenduto il loro catalogo passato e presente per un pugno di lenticchie, finendo per favorire un sistema che ha finito per uccidere definitivamente il supporto fisico, già agonizzante, e che ha messo in agonia anche il download, la cui uscita dal mercato è prevista in tempi molto brevi. Poco importa anche che lo streaming abbia sostanzialmente ucciso la musica stessa, perché la modalità di ascolto di merda che ci consente è talmente di merda da aver spinto produttori e discografici, a volte anche artisti assai poco interessati all’arte, a mettere in giro musica che per questa modalità di merda fosse pensata. Come se di colpo la contemporaneità non equivalesse a una sonorità appoggiata su stilemi odierni, sia tecnologicamente parlando che per questioni di gusti e linguaggi, ma equivalesse semplicemente a quel che gira meglio in streaming, modo agghiacciante di adeguarsi alla bassa fedeltà laddove in passato si era cercato in tutti i modi di fare delle necessità virtù.
Oggi Spotify si quota in borsa, a fronte di un buco gigantesco, impressionante, quello sì epico. Qualcosa vicino al miliardo e mezzo di rosso, che uno ci pensa e gli viene una sincope, perché già se andiamo sotto di venti euro, a noi comuni mortali, il direttore di banca si premura di romperci il cazzo
Poco importa tutto questo, un quadro che ci fa sembrare plausibile il vetraio che ci prende a mattonate le finestre di casa per poi venderci i vetri nuovi. Oggi Spotify si quota in borsa, a fronte di un buco gigantesco, impressionante, quello sì epico. Qualcosa vicino al miliardo e mezzo di rosso, che uno ci pensa e gli viene una sincope, perché già se andiamo sotto di venti euro, a noi comuni mortali, il direttore di banca si premura di romperci il cazzo. Non potrebbe che essere così, visto che chi paga per usufruire della piattaforma Premium, quella a pagamento appunto, è una percentuale risibile, in Italia neanche duecentomila persone, per dire, e di queste duecentomila non ci è neanche stato detto quanti fossero quelli che ne hanno usufruito con la app craccata (per la cronaca, per altro, ne esiste già una nuova versione crackata, con buona pace di Spotify e della Fimi, che si ostina a tenere conto dello streaming per le classifiche e le certificazioni). Oggi Spotify si quota in borsa, dicevamo, e sicuramente andrà a fare il botto. Un successone annunciato e prevedibilissimo. E noi, come per i protagonisti di Gomorra, o i cattivi che vincono alla fine dei telefilm, saremo contenti per loro.
Perché Spotify ha ucciso la discografia, ha ucciso gli artisti, ha ucciso la musica, ma il Lato Oscuro della Forza vince sul bene, guardate che fine del cazzo ha fatto Ian Solo e adeguatevi.