È tempesta perfetta nella politica italiana, un tifone che ha il suo epicentro nella impossibilità di realizzare la vecchia promessa: «Il prossimo premier sarà scelto dal popolo». È una frase che hanno pronunciato più o meno tutti in campagna elettorale, facendone il perno di uno strappo radicale con l’ultima stagione della politica italiana, nella quale l’Italia sarebbe stata in balia di leader “non eletti da nessuno” (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni). Ora che è cominciata l’era della “volontà popolare”, tuttavia, si scopre che è difficile capire che cosa voglia questo popolo e accontentarlo è quasi impossibile.
Secondo l’analisi pubblicata domenica 8 aprile da Ilvo Diamanti, ad esempio, gli elettori leghisti non apprezzerebbero affatto uno strappo con Berlusconi, al quale il 47 per cento si sente “vicino” contro appena il 26 per cento che esprime empatia per il M5S. Tra quelli del M5S, solo il 23% si sente vicino a Salvini, percentuale che crolla al 7 con Silvio Berlusconi. Quelli del Pd, poi, ostentano distanza da tutti: appena il 14% parlerebbe con Di Maio, solo il 6 con Berlusconi o Salvini.
Vent’anni di contrapposizione frontale in politica hanno prodotto, nell’opinione pubblica, torsioni che renderebbero impossibile formare qualsiasi governo se davvero si desse retta alla volontà popolare
La situazione più paradossale, in questo contesto, è senz’altro quella che ruota intorno al rapporto tra M5S e Pd. Tutti gli analisti ci hanno spiegato che una parte consistente del vecchio elettorato democratico – 18 elettori su 100 – in questa tornata si sono spostati sui Cinque Stelle, aggiungendosi alla quota già significativa degli ex-Pd che avevano votato Grillo nelle precedenti tornate comunali e regionali. Nella raffigurazione che ci siamo fatti del nuovo bipolarismo, il Movimento Cinque Stelle dovrebbe rappresentare l’upgrade dei partiti progressisti. A proposito si sono citate le sue battaglie ambientaliste (l’acqua pubblica, il no alle trivelle), i suoi riferimenti internazionali (il Venezuela di Chavez e Maduro), la questione della legalità, il sì (poi smentito) allo Ius Soli, l’apertura alla legalizzazione della cannabis. Bene, nonostante tutto ciò si sentono “vicini” al Pd solo 14 elettori grillini su 100. L’alleanza che tutti definiscono “naturale” è in realtà una scelta assai minoritaria.
L’esercizio di composizione di questi dati richiederebbe un lavoro da alchimisti. Ed è auspicabile che la politica non tenti neppure di farlo. Vent’anni di contrapposizione frontale in politica hanno prodotto, nell’opinione pubblica, torsioni che renderebbero impossibile formare qualsiasi governo se davvero si desse retta alla volontà popolare espressa in termini esclusivamente statistici. Se interpellati, gli elettori dei principali partiti dichiarano una incompatibilità sostanziale con tutti gli attori dei campi avversi, e solo una ristretta minoranza – meno di un quarto – esprime un qualche tipo di sintonia con i partiti ed i leader avversari. Per citare un ultimo dato: l’alleanza più “gettonata”, quella fra M5S e Lega, raggiunge appena il 38% dei consensi, il che significa che il 62% è nettamente ostile.
La generazione dei leader quarantenni dovrà dunque imparare a far ciò che, prima di loro, hanno dovuto fare tutti i capi di partito della Repubblica: scontentare almeno in parte la volontà popolare e rassegnarsi all’idea che la presa del Palazzo d’Inverno ha un prezzo in termini di consenso. Il «premier scelto dal popolo» in questa situazione, con questi risultati elettorali, continuerà a essere un’utopia. Avremo un premier frutto di un accordo parlamentare, come sempre. A buona parte del popolo non piacerà, comunque vada. La fiducia collettiva dovrà conquistarsela dopo, con l’azione di governo, e nessuno gliela regalerà in anticipo.