Tra i vari oggetti da retromaniaci riportati in auge negli ultimi anni un posto d’onore va senz’altro alla cara vecchia Polaroid. Uno scatto e sviluppo istantaneo, un attimo di vita fermato al “buona la prima”. Queste macchinette stanno alla fotografia come le canzoni d’oggi stanno alla musica. Quello che ha iniziato a funzionare nell’industria musicale è una forma di comunicazione sempre più diretta, artisti che nei loro pezzi raccontano i fatti propri in maniera assolutamente intima e confidenziale. Se da un lato è improbabile riuscire davvero a cogliere pienamente la situazione che ha ispirato il testo, d’altra parte vale il fatto che siamo tutti sulla stessa barca dispersa alla deriva. Ed ecco che frasi come “non ho lavato i piatti con lo Svelto e questa è la mia libertà”, escono dalla foto e finiscono per diventare l’espressione di una generazione intera.
Quello che ha iniziato a funzionare nell’industria musicale è una forma di comunicazione sempre più diretta, artisti che nei loro pezzi raccontano i fatti propri in maniera assolutamente intima e confidenziale. Se da un lato è improbabile riuscire davvero a cogliere pienamente la situazione che ha ispirato il testo, d’altra parte vale il fatto che siamo tutti sulla stessa barca dispersa alla deriva
Nella musica italiana, da qualche anno a questa parte, c’è un tratto che spicca fin troppo spesso, che ogni volta ci affascina e incanta coi suoi lineamenti familiari: la poetica del disagio. Mentre fino a qualche decennio fa dall’underground musicale emergevano realtà potenti e politicamente impegnate, ora sono pochi gli artisti che hanno voglia di esporsi a riguardo, e quelli che lo fanno non arrivano al cuore di molte persone (con qualche eccezione nella scena rap). Se la musica è sempre stata lo specchio della società, di quello che le persone vivono, basta infilarsi gli auricolari e premere play sulla playlist Indie Italia di Spotify (ma non solo) per rendersi conto che la crisi non è più solo una questione finanziaria ed economica: quello che ci ritroviamo a cantare tutti insieme sotto ad un palco è l’espressione di un continuo smarrimento generazionale.
“Se non so da dove cominciare non chiedermi come andrà a finire”, canta Motta in una canzone del suo nuovo album. I 30 anni sono i nuovi 20, i 40 sono i nuovi 30 e questa apparente libertà di godersi di più la vita non è altro che un procrastinare la presa di coscienza. Stiamo cercando di costruire case di carta tra una folata di vento e l’altra. Il lavoro (quando c’è) è a tempo determinato, le relazioni pure. Tutto è diventato liquido e abbiamo perso le basi, la stabilità, i valori, la capacità di gestire i rapporti in modo sereno. Viviamo nella tempesta e cerchiamo di non pensarci distraendoci continuamente, ed ecco che ci nascondiamo dietro a una leggerezza pop. Mi vengono in mente I Cani e le loro velleità che “aiutano a dormire/scopare, quando i soldi sono troppi o troppo pochi, e non sei davvero ricco né povero davvero”; mi viene in mente Brunori Sas e le sue “canzoni poco irriverenti […] canzoni per chi non ha voglia d’abbaiare o di ringhiare, canzoni tanto per cantare”. Parliamo pure d’amore, perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? Ma forse è meglio di no, perché impegnarsi è demodé e i sentimenti spaventano. Fermarsi e scegliere di restare, mentre la giostra continua a girare veloce, è diventato un atto per impavidi.
C’è ansia e disagio (che tra l’altro è pure il titolo di un album di Giancane), c’è lo Xanax pure nelle canzoni. Giovani uniti solo sotto ad un palco, solo finché dura, a cantare in coro quanto siamo persi e quanto non sappiamo dove sbattere la faccia per ritrovarci
Tutti questi artisti raccontano il vero, niente da dire. Le canzoni sono fotografie fedelissime alla realtà, ed è una cosa bella, forse allora il problema è il restare fedeli a una realtà che fa schifo prendendola per buona. Raccontarla e nient’altro, ambasciator non porta pena, specchio di una società in cui non c’è più alcuna reazione, non c’è più rabbia né serenità. C’è ansia e disagio (che tra l’altro è pure il titolo di un album di Giancane), c’è lo Xanax pure nelle canzoni. Giovani uniti solo sotto ad un palco, solo finché dura, a cantare in coro quanto siamo persi e quanto non sappiamo dove sbattere la faccia per ritrovarci. Giovani falene, nate con l’istinto di seguire la luce della luna per orientarsi, per poi farsi fregare dai led-paradiso dell’Apple store. Ed eccoci lì, stecchiti sulle vetrine. Noi che veniamo male su tutte le Polaroid.