Sana e le altre, la vergogna di uno Stato che non fa nulla per proteggere i “nuovi italiani”

Ufficialmente Sana è morta per un malore. Eppure, appena la Farnesina si è interessata, sono stati arrestati il padre e lo zio. Se non vogliamo cittadini di serie B bisogna aprire un'inchiesta e portarla fino in fondo

Ha fatto bene la Farnesina ad attivarsi per scoprire le cause della morte di Sana Cheema: sembra che ieri il Pakistan abbia riaperto il caso, fermando il padre e lo zio della ragazza. Anche la magistratura italiana farebbe bene ad occuparsene. A dispetto del nome e dell’origine famigliare, Sana era cittadina italiana e una volta tanto potremmo tutti concordare su un fatto: se un italiano muore all’estero in circostanze controverse siamo noi a dovercene occupare, noi a dover fare chiarezza.

Nel caso di Sana c’è un motivo in più per andare a fondo, al di là delle esigenze di ordinaria giustizia. Sana era una dei 150mila pakistani italiani, e a questa comunità si deve far sapere con chiarezza che l’acquisizione della cittadinanza corrisponde a specifici diritti e doveri per tutti: il diritto delle ragazze a vivere come gli pare; il dovere degli uomini di rispettare le loro scelte. Se c’è un dubbio, un’ombra – e nel caso di Sana ce ne sono parecchie – ci saranno indagini, e conseguenze, e si dovrà rispondere all’autorità per dissiparli.

La comunità pachistana di Brescia si è data molto da fare, in questi giorni, per avallare la versione ufficiale secondo cui Sana è stata colta da un malore l’11 marzo, forse infarto, in un negozio ed è morta dopo o durante il trasporto in ospedale

Di questa nuova italiana, 25 anni, bella, spigliata, si sa al momento pochissimo. Era perfettamente integrata a Brescia. Lavorava (in una piccola autoscuola specializzata nelle patenti a stranieri). Proveniva dal distretto di Gujrat, nella provincia del Punjab, una zona agricolo-contadina dove il delitto d’onore è moneta corrente. Fino all’inizio di marzo ha scritto su Fb. Forse aveva rotto di recente il fidanzamento con un ragazzo della sua stessa origine, anche lui cittadino italiano. Era tornata nel suo Paese “ufficialmente” per una vacanza con la famiglia. Lì aveva rincontrato i genitori, che da tempo si sono trasferiti in Germania.

La comunità pachistana di Brescia si è data molto da fare, in questi giorni, per avallare la versione ufficiale secondo cui Sana è stata colta da un malore l’11 marzo, forse infarto, in un negozio ed è morta dopo o durante il trasporto in ospedale. Il 16 aprile è stato diffuso su internet un filmato dei funerali, con una salma avvolta in un velo, ma non c’è alcun elemento distintivo per capire se sono davvero quelli di Sana. Il segretario nazionale della comunità pakistana in Italia, Raza Asif, ha avallato la versione delle autorità smentendo la notizia dell’arresto del padre e dello zio subito dopo la tragedia (sono stati poi fermati ieri, la notizia è stata data alla nostra ambasciata).

Se, al contrario, prevarrà l’idea di una sorta di “cittadinanza di serie B sarà ben difficile chiedere rispetto dei doveri a comunità lasciate libere di gestirsi a modo loro i diritti e in specie i diritti delle giovani donne che hanno scelto l’Occidente come nuova patria e nuovo sistema di valori

L’ipotesi del delitto d’onore, avanzata da alcuni amici della ragazza è stata avallata da Lega e FI con il solito ammonimento a respingere “chi porta in Italia questa cultura”. Ancora una volta c’è un errore prospettico perché stiamo parlando di un’italiana uccisa all’estero e il punto è un altro: che cosa fa lo Stato italiano per tutelare, garantire, proteggere le ragazze di seconda generazione che si ribellano alle culture tribali di provenienza, che vogliono essere “come noi”? Quante Sana ci sono fra le migliaia di giovani di origine pachistana che studiano con i nostri figli, lavorano nei nostri uffici, nelle nostre fabbriche, nelle nostre case?

Fare di Sana un caso esemplare, allora (e c’è da riconoscere alla vicepresidente della Camera Mara Carfagna una dichiarazione in questo senso). Aprire un’inchiesta sulla sua morte, e portarla avanti fino in fondo per chiarire che Sana era una di noi, e sono parte di noi anche le altre, non proprietà delle famiglie o delle tradizioni tribali, ma libere cittadine di un libero Stato che le difende anche oltre i suoi confini. Se, al contrario, prevarrà l’idea di una sorta di “cittadinanza di serie B – se la vita di Sana sarà giudicata di importanza diversa da quella degli italiani “doc” – sarà ben difficile chiedere rispetto dei doveri a comunità lasciate libere di gestirsi a modo loro i diritti, e in specie i diritti delle giovani donne che hanno scelto l’Occidente come nuova patria e nuovo sistema di valori.

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