Nessun cambio di prospettiva all’orizzonte, nessun passo indietro. Matteo Renzi ha deciso di tenere il Pd fuori da qualsiasi ipotesi di alleanza di governo con i Cinque Stelle e così farà. Non solo, l’ex segretario sembra ormai deciso a disarcionare Maurizio Martina. Dopo settimane di attendismo, in cui ha dovuto respingere offensive via via più pesanti dei suoi fedelissimi, Renzi ha ormai tracciato il percorso: con ogni probabilità a prendere le redini del partito per i prossimi (pochi) mesi sarà il presidente Matteo Orfini, in attesa che un nuovo segretario, legittimato dal congresso, prenda il definitivo controllo della situazione. Decisiva, in questo senso, è stata l’accelerazione imposta dallo stesso Martina (che a posteriori potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol) che ha dapprima imposto la data del 21 aprile per lo svolgimento dell’Assemblea nazionale, nonostante gli inviti per un rinvio si sprecassero, e poi ha lanciato senza preavviso la sua candidatura, sperando di prendere tutti in contro tempo. Il risultato di questa operazione è stato invece quello di aver definitivamente minato la fiducia – già ai minimi termini – di Matteo Renzi.
Il reggente – da quando ha preso il posto del suo predecessore – ha tentato un’operazione molto complicata, soprattutto nel Pd di oggi, in cui imperversa la “guerra tra bande” interna: porsi come vertice di una vera gestione collegiale, cercando di coalizzare intorno alla sua figura il numero più alto di consensi
Sarà un’operazione indolore? Difficile da prevedere, dato che la marcia d’avvicinamento al 21 aprile sta diventando per il Pd sempre più irta di ostacoli. Quel che è certo è che Renzi è convinto di avere i numeri per tenere in ostaggio il partito e poterne disporre ancora a suo piacimento. Su mille delegati all’Assemblea, si calcola che almeno 620 siano si stretta osservanza renziana e che, comunque, la base possa essere anche più ampia. Numeri che possono essere contrastati solo con un’azione forte e congiunta da parte di tutto il mondo – dentro il Pd – non direttamente legato alla figura dell’ex segretario, che sia in grado di far traballare le certezze numeriche del “nuovo senatore semplice di Scandicci”.
Ed è proprio quel che sta provando a fare Martina in queste ore. Il reggente – da quando ha preso il posto del suo predecessore – ha tentato un’operazione molto complicata, soprattutto nel Pd di oggi, in cui imperversa la “guerra tra bande” interna: porsi come vertice di una vera gestione collegiale, cercando di coalizzare intorno alla sua figura il numero più alto di consensi. Operazione che sembrava aver dato i suoi frutti ma che è stata inesorabilmente condizionata dal dibattito su come affrontare la questione del governo del Paese, che sta creando fratture profonde nel partito.
A partire dalla rottura sempre più evidente tra lo stesso Renzi e Dario Franceschini, intenzionato a provarle tutte pur di evitare che il Pd assista passivamente alla nascita di un governo Lega-Cinque Stelle. L’arroccamento del fronte renziano nasconde anche un indebolimento strutturale del Giglio Magico, con Luca Lotti sempre più invischiato nella vicenda Consip e Maria Elena Boschi al centro di una bufera sul ruolo (e la scomparsa) delle donne nel Pd. Di qui la necessità di mandare un messaggio di forza all’Assemblea.Se il governo Lega-M5s non dovesse prendere vita, se Mattarella fallisse nell’obiettivo di dare al Paese una qualsiasi altra forma di governo istituzionale, il rischio di elezioni anticipate evocato da Orlando durante la riunione dei gruppi diventerebbe sempre più concreto. E a quel punto una ulteriore diminuzione di posti in lista sarebbe da mettere in conto
Messaggio che verrà recepito dallo stesso Martina, deciso a resistere ma pronto a ritirare la propria candidatura se verificherà che non saranno poi in molti pronti ad immolarsi per lui. Non sembra esserlo Andrea Orlando che, a precisa domanda, ha risposto che in fondo “Martina era il vice di Renzi”. Non lo sono Paolo Gentiloni e Marco Minniti, ancora relativamente impegnati al governo e che non dispongono di truppe pronte a voltare le spalle all’ex segretario, e soprattutto non lo è Dario Franceschini, che in questa fase è più interessato da quello che succede al Quirinale (in molti, al Nazareno, dicono che sia lui il vero interprete di Mattarella) piuttosto che a chi guiderà il partito nelle prossime settimane.
Anche perché c’è un dato che il mainstream sta inopinatamente sottovalutando. Se il governo Lega-M5s non dovesse prendere vita, se Mattarella fallisse nell’obiettivo di dare al Paese una qualsiasi altra forma di governo istituzionale, il rischio di elezioni anticipate evocato da Orlando durante la riunione dei gruppi diventerebbe sempre più concreto. E a quel punto una ulteriore diminuzione di posti in lista sarebbe da mettere in conto. Per questo tutti hanno interesse da una parte ad evitare lo scontro frontale, dall’altra a prendere (o tenere, nel caso di Renzi) il controllo sulla composizione delle liste. Di qui la scelta del più influente alleato dell’uomo di Rignano che ci sia nel Pd, Matteo Orfini. Che, essendo presidente, avrebbe anche la copertura dello statuto. Se invece non si andrà a elezioni anticipate, il nome per il congresso su cui Renzi e soci stanno continuando a lavorare è sempre e solo uno: Graziano Delrio, che, nonostante non abbia dato la disponibilità ad una candidatura, rimane di gran lunga la prima scelta, ben al di sopra dei già (auto)lanciati Matteo Richetti e Debora Serracchiani.