Misurare l’intelligenza è un fatto sociale, anzi politico. Come è noto, il celebre QI, ad esempio, traduce in parametri umani i principi di produttività ed efficienza dell’epoca fordista. In questi tempi così complicati e intrecciati forse servono altri sistemi di valutazione, che non premiano le abilità logiche ma quelle comunicative.
È il concetto di “cultural intelligence”, introdotto per la prima volta da Christopher Early, ora decano della scuola di management della Purdue University. Serve a misurare l’abilità di una persona di muoversi e agire senza problemi (anzi, in modo efficace) in contesti interculturali. Riesce cioè a comprendere al volo abitudini e usi diversi e a rispondere in modo adeguato. Abilità più adatte per un mondo sempre più connesso.
Ma come si fa a calcolarlo? Non è semplice. Secondo una serie di studi si tratta di un mix di quattro fattori chiave: c’è l’abilità di comprendere informazioni culturali nuove e metterle in relazione con il proprio bagaglio (o con altre culture) e poi la capacità di mettere tutto in pratica, senza vergogna né (questa proprio non ci vuole) ironia. Insomma, da un lato comprensione e rispetto, dall’altro capacità di mimesi.
Non esiste, insomma, un codice di condotta unico. In certi posti si possono fare alcune cose, in altri invece sono proibite. In Germania è bene arrivare diritti al punto mentre in Svizzera ci vogliono almeno dieci minuti di chiacchiere preliminari. Codici diversi. Per cavarsela gli esperti suggeriscono almeno due cose: avere un’intenzione positiva, cioè dare per scontato che, in quel momento, gli altri si stiano comportando in modo educato/normale; e poi nutrire una forte leggerezza per tutte le situazioni imbarazzanti che arriveranno con l’incontro di culture diverse. Esiste una soglia di tolleranza per gli stranieri, che però si assottiglia di minuto in minuto. Occorre sapere e capire come si comportano gli altri nel più breve tempo possibile.