Un po’ è furbizia, un po’ è ingratitudine: le grandi aziende che lavorano nel petrolio da tempo hanno deciso di togliere “oil” dal loro nome. L’ultima è stata quella norvegese, la Statoil, che ha deciso di ribattezzarsi Equinor. Una mossa che, a un tempo, fa sparire ogni riferimento al suo core business e che richiama, invece, un senso di equità e uguaglianza. Lo hanno fatto, spiega la Reuters, per attrarre i più giovani, poco propensi, per cultura ambientalista, a lavorare in un’azienda che si occupa di idrocarburi.
È un caso di greenwashing (cioè l’ipocrita adozione di misure ambientaliste cosmetiche per migliorare la propria brand reputation)? Loro dicono di no, anzi. La Statoil – pardon, Equinor – si è impegnata a espandere la sua attività nel campo delle energie rinnovabili investendo il 15 o il 20% delle sue spese in conto capitale in “nuove soluzioni energetiche”. E poi, hanno aggiunto, “nessuno dei nostri competitor ha la parola ’petrolio’ nel suo nome. Avercelo è uno svantaggio”.
Ed è la verità: se si guarda bene la lista, non compare né “gas” né “petrolio” in nessuno dei massimi produttori. C’è la Saudi Aramco, la Sinopec, la ExxonMobil, la Royal Dutch Shell, l’Eni, la Total, la Bp.
Poi certo, c’è la Gazprom. Ma si sa che i russi badano al sodo e non si interessano a queste frescacce.