La diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali e l0aumento esponenziale delle capacità di calcolo stanno radicalmente trasformando la società, dalla politica alla ricerca scientifica, dai rapporti sociali alle forme di lavoro, in modo tutt’altro che trasparente. Pochissimi gruppi privati hanno la possibilità di determinare processi su scala globale, traendo enormi profitti dalle informazioni che ognuno di noi produce ogni giorno. Gli algoritmi, spesso descritti come strumenti neutrali e oggettivi, giudicano medici, ristoranti, insegnanti e studenti, concedono o negano prestiti, valutano lavoratori, influenzano gli elettori, monitorano la nostra salute. Datacrazia è un’antologia, curata da Daniele Gambetta per D Editore, che, con spirito multidisciplianre e critico, indaga i rischi e le potenzialità delle nuove tecnologie. Ne fa parte l’estratto che pubblichiamo qui grazie alla gentile concessione dell’editore e dell’autore, Lelio Simi.
Per (cercare) di capire quale potere i dati abbiano esercitato sul giornalismo e l’industria dei giornali, bisogna raccontare due storie distinte. Una racconta di come i dati abbiano ispirato un nuovo metodo di lavoro per chi fa informazione, creando un nuovo “genere” giornalistico che sta ancora oggi cercando di dare sempre più elementi oggettivi (e un po’ meno chiacchiere) alle storie che vuole raccontare. La seconda, invece, racconta di come i dati, con un impatto dirompente, stiano completamente trasformando il modello di business sul quale l’industria dei giornali si è basata per oltre un secolo, e che poggiava la propria architettura dei ricavi principalmente sugli investimenti pubblicitari.
I dati usati bene: dal giornalismo di precisione al giornalismo dei dati
La prima di queste due storie potrebbe iniziare nella redazione di un giornale locale americano, cinquant’anni fa. È il 1967, siamo a Detroit, e in città sono scoppiate delle rivolte a carattere razziale. Nella redazione del Detroit Free Press, è arrivato da poco un giornalista che ha appena completato un anno di fellowship alla Nieman Foundation dell’Università di Harvard. Il suo nome è Philip Meyer. Meyer è convinto che il modo migliore per “leggere” e raccontare quel tipo di avvenimenti sia mutuare il metodo scientifico praticato dagli scienziati sociali. A Harvard ha imparato inoltre a usare un linguaggio per computer scritto per l’IBM 7090, il DATA-TEXT. L’intuizione di utilizzare nel giornalismo dei dati, applicando con metodo scientifico la potenza di calcolo dei primi computer, rappresenta una svolta epocale: al Free Press assumono anche consulenti dell’Università del Michigan e organizzano un sondaggio campione di famiglie nell’area della rivolta, utilizzando interviste personali.
Questo metodo di lavoro permette di sfatare alcune certezze che si erano consolidate in molti editorialisti che li commentavano, come ad esempio la teoria secondo la quale i rivoltosi rappresentavano i casi più frustrati e disperati della scala economica, che si ribellavano perché non avevano altri mezzi per esprimersi. Il metodo analitico adottato dal Free Press dimostrò però che, al contrario, gli individui che frequentavano l’università avevano la stessa probabilità di partecipare alla rivolta quanto chi non aveva finito la scuola secondaria. La teoria sostenuta dai dati dimostrò quindi che la realtà era un’altra rispetto alla lettura dei fatti non sostenuta dai dati: «Se non avessimo esaminato quel progetto con teorie specifiche da testare, le nostre storie avrebbero potuto essere solo raccolte caotiche di fatti solo vagamente correlati» dichiarerà in uno speech molti anni dopo lo stesso Meyer.
L’accurata e approfondita analisi dei dati, insomma, dà la possibilità di raccontare una storia altrimenti impossibile da esporre. Il reportage curato da Meyer è pieno di grafici a barre, elenchi, numeri incasellati in tabelle. Il linguaggio è preciso e non lascia spazio a pennellate di colore. Ma fa guadagnare al Free Press un premio Pulitzer. Viene definito un nuovo standard per il giornalismo investigativo.
I numeri sono come il fuoco. Possono essere usati per il bene o per il male. Usati impropriamente, possono creare illusioni di certezza e d’importanza che ci rendono irrazionali […]. Alcune cose possono essere quantificate più facilmente di altre, e la nostra attenzione viene spesso attratta da quegli aspetti di un problema ai quali risultano connessi dei numeri. I numeri li fanno apparire più importanti di quanto talvolta siano. Invece, quando sono usati bene, i numeri possono attirare l’attenzione sulle situazioni che contano in mezzo a tutto il clamore e il bagliore dell’età informatica. In un mondo dove non sono molte le cose certe oltre la morte e le tasse, siamo talvolta tentati di rinunciare alla quantificazione preferendo invece di affidarci all’intui-to e all’idea di raccontare storie.
Ovviamente, in quel “quando usati bene” c’è tutto un mondo, tutto un metodo da affinare continuamente, ma l’idea che “quantificare” concretamente debba sempre avere il sopravvento sull’affidar-si “all’intuito e all’idea di raccontare storie” è qualcosa di più di una semplice dichiarazione di intenti: è una dichiarazione programmatica di un nuovo “genere” giornalistico, che ha il centro motore, non nella fascinazione della narrazione letteraria, ma nei dati; è il suo modo per approcciarsi alla realtà che racconta. Forse è superfluo, ma bisogna almeno ricordare che quelli sono gli anni nei quali negli Stati Uniti si afferma un altro filone giornalistico come il cosiddetto “Giornalismo narrativo” – con interpreti eccezionali come Gay Talese, Tom Wolfe, Norman Mailer – che aveva proprio nel “raccontare storie” il suo primo obiettivo.
Il “genere” giornalistico continua con lavori molto importanti, come ad esempio The color of Money di Bill Dedman per l’Atlanta Journal and Constitution, ovvero un’inchiesta sui mutui alle persone di colore di Atlanta o What Went Wrong, reportage del 1993 di Stephen Doig per il Miami Herald sugli effetti dell’uragano Andrew (entrambi premi Pulitzer). Ma è con la diffusione di massa, grazie a internet, di un’enorme quantità di dati e informazioni e, contemporaneamente, della disponibilità di accesso per tutti agli strumenti per analizzarli e visualizzarli, che avviene una nuova ulteriore svolta nel rapporto tra giornalismo e i dati. Intorno alla fine degli anni zero del Duemila, testate come il Guardian capiscono che il nuovo contesto, il nuovo ecosistema dei media, impone un nuovo approccio, e il suo Data Blog (lanciato sul sito del giornale britannico nel 2009) diventa un punto di riferimento per un nuovo approccio. Insomma, è la nascita di un nuovo movimento: il cosiddetto Data Journalism.
È importante sottolineare che il Data Journalism non si limita soltanto a proporre un metodo di lavoro giornalistico, ma si caratterizza per la sua natura digitale e si fonda su un’idea forte di rete “sociale” ampia, dove i dati e gli strumenti per elaborarli sono (devono essere) condivisi. Il Data Journalism nasce e si sviluppa insomma con un’idea forte di comunità composta non solo da giornalisti (che anzi semmai ne sono solo una delle componenti, e nemmeno quella maggioritaria), ma anche da un’ampia rete di esperti di programmazione, statistica, gestione delle comunità online e di qualsiasi altra cosa possa essere utile ad approfondire sempre meglio l’analisi e la gestione dei dati.
Il Data Journalism (proprio in virtù dei suoi natali digitali) non è solo inchiesta, ma è anche condivisione e partecipazione. Ciò significa che lettori, utenti, cittadini più o meno comuni possono contribuire e arricchire le inchieste giornalistiche aggiungendo informazioni e dataset, o perfino suggerendo ambiti di inchiesta correlati, dando vita a un giornalismo reticolare di vasta portata, in grado di far convergere fonti, strumenti e professionalità distinte, secondo modalità fino a poco tempo fa inimmaginabili2
Il Data Journalism non vive quindi solo nelle redazioni, anzi, tranne rari casi di eccellenza di alcune grandi testate internazionali (il già citato Guardian, il New York Times, El País, il Washington Post e una manciata di altri giornali). Questo approccio è visto con una certa diffidenza:
È una storica ritrosia alla “trasparenza”. Il cronista, l’invia-to, il giornalista in genere pensa di dovere al lettore/spettatore/utente solo il distillato finale delle sue indagini: l’articolo, il servizio audio o video, magari corredati di tabelle esemplificative. Non immagina la possibilità di fornire contestualmente al lettore anche TUTTI i dati grezzi sulla base dei quali è giunto a quelle conclusioni. Ma è proprio questo che fa il Guardian nel suo celebrato DataBlog: non solo fornisce, analizza e interpreta i dati pubblici, ma fornisce in formato scaricabile e riutilizzabile anche i dati raccolti direttamente dai giornalisti e che sono alla base delle loro inchieste. C’è rischio di essere smentiti e contraddetti da lettori/utenti, da avversari e concorrenti? Si, è una delle regole del nuovo universo digitale
Tra i lavori del Guardian che appartengono a questa “filosofia”, ricordiamo Nsa: File Decoded (premio Pulitzer nel 2014), pubblicato dalla redazione statunitense della testata che affronta il tema delle rivelazioni sulle attività di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana fatte dal whistleblower Edward Snowden. Una massa enorme di dati e documenti, elementi che sembrano essere l’antitesi del materiale ideale (empatia, emozione) per una buona storytelling. Ma la sfida è stata proprio questa: far capire al lettore come e perché quella massa imponente di file siano importanti anche per lui: What the revelation mean for you è significativamente il sottotitolo del reportage.
Un nuovo contesto insomma, un cambio di paradigma che si accoda all’idea di partecipazione civica e di crowdsourcing. Come ha scritto già nel 2012 Simon Rogers sul Guardian nell’articolo Anyone can do it. Data journalism is the new punk che, riprende con un sillogismo particolarmente efficace l’idea del movimento punk nato nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso.
Probabilmente il punk è stato più importante per la sua influenza, incoraggiando i ragazzi della periferia a prendere gli strumenti, con poca o nessuna formazione musicale. Rappresentava un ethos del fai-da-te e uno scossone del vecchio ordine stabilito. È stato un cambiamento. Fondamentale è stata l’idea: chiunque può farlo […]. Certo, per alcune persone questo non sarà mai il giornalismo. Ma allora, a chi importa? Mentre loro si preoccupano delle definizioni, il resto di noi può solo andare avanti.
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I dati e la disruption dei ricavi pubblicitari dei giornali
Se per raccontare come i dati abbiano contribuito a creare un nuovo metodo di lavoro per i giornalisti abbiamo iniziato da un luogo e una data precisa, fare altrettanto per iniziare a parlare di come i dati abbiano alimentato (e continuino a farlo) l’architettura dei ricavi dei giornali, è decisamente più complicato. Possiamo però partire se non da un luogo o da una data, dall’immagine di un grafico. Ad esempio, quello apparso sulla rivista Wired relativo alle fonti di fatturato del New York Times dal 2000 al 2015: il peso percentuale della pubblicità sul totale dei ricavi del Times nel 2000 era pari al 71% (70% pubblicità su stampa e 1% su digitale) mentre nel 2015, 15 anni dopo, questa quota si è ridotta al 40% (28% l’advertising sulla carta e 12% quello su digitale). Il peso dei ricavi da pubblicità su carta si è ridotto quindi di due volte e mezzo. Ma se andassimo a vedere i bilanci del Times, vedremmo che i ricavi totali sono passati nello stesso periodo da 3,49 miliardi a 1,58 miliardi di dollari, quindi secondo queste percentuali riportate dall’Atlantic, i fatturati da pubblicità di uno dei giornali più importanti e prestigiosi al mondo sono passati dai 2,4 miliardi del 2000 ai 442 mila dollari del 2015. Ovvero cinque volte e mezzo inferiori a quelli di quindici anni prima.
Stiamo parlando di uno dei giornali che oggi viene preso, giustamente, da molti analisti e addetti ai lavori, come uno dei migliori esempi di gestione di questa crisi con scelte coraggiose e lungimiranti nel gestire il cambiamento. Da altre parti è successo di molto peggio. Ma a fronte di questa storica crisi degli investimenti pubblicitari sui giornali, c’è da dire che a livello globale questi non sono affatto diminuiti in questi anni, anzi sono aumentati. Gli investimenti a livello globale stanno continuando a crescere e si prevede che continueranno a farlo anche nei prossimi anni. Dunque, cosa è successo? Perché di questa crescita gli editori non vedranno che le briciole? (Anzi, secondo le previsioni più accreditate, nemmeno quelle; la stampa vedrà sempre più ridursi il proprio peso specifico).
«Da metà anni Novanta», si legge in uno degli ultimi report pubblicati dall’agenzia Zenith (le sue previsioni di mercato sono dei punti di riferimento per tutti gli addetti ai lavori), «la pubblicità su Internet è aumentata a scapito della stampa. Negli ultimi 10 anni è passata dal 9% della spesa totale mondiale (nel 2007) al 37% (nel 2017). Nello stesso periodo di tempo la quota di spesa pubblicitaria globale sui quotidiani è scesa dal 27% al 10%, mentre quella sulle riviste dal 12% al 5%». Il peso percentuale degli investimenti globali pubblicitari sui giornali in dieci anni è diminuito, quindi, dal 39% al 15%: un “dimagrimento” di oltre due volte e mezza.
Le cattive notizie per gli editori non sono finite: la previsione di Zenith è che gli investimenti pubblicitari su quotidiani e riviste continueranno a ridursi al ritmo rispettivamente del 4% e 6% l’anno tra il 2017 e il 2020, per finire a quote di mercato del 7,5% e del 3,9%. In questo quadro sarà Internet (in particolare modo il mobile) a trascinare la crescita, diventando il primo mezzo per investimenti pubblicitari con una quota che, tra il 2016 e il 2019, salirà dal 34,1% al 41,7% superando anche la televisione (che dal 35,5% nel 2016 scenderà al 32% nel 2019). Un sorpasso che in un mercato importante come gli Stati Uniti è già avvenuto alla fine di quest’anno. C’è da dire che tutte queste previsioni si riferiscono alla carta stampata e non ai siti su desktop, tablet o telefonino dei giornali.
Ma anche qui c’è un problema: se si parla di investimenti pubblicitari su Internet, parliamo di Google e Facebook, che di questa torta si mangiano quasi tutto. Proprio la pubblicità costituisce la prima, e quasi unica, voce di ricavo per i due colossi tecnologici (per Facebook è il 97% mentre per Google l’80%). Un duopolio di fatto, che assorbe il 63,7% della spesa in advertising digitale negli Stati Uniti nel 2017 secondo l’agenzia di analisi di mercato eMarketer.
Certo, non è una novità, ma sorprende comunque un dato riferito ancora agli USA: complessivamente la crescita nel 2016 dei ricavi da pubblicità sul digitale, rispetto al 2015, è stata di 12,9 miliardi di dollari. Di questo incremento Big G ne ha beneficiato per 6,3 miliardi di dollari mentre Facebook per 5,1 miliardi, la somma di queste due cifre fa 11,4 miliardi, ovvero l’89% dell’incremento degli investimenti è andato nei bilanci di queste due società. A tutti gli altri messi assieme (cioè a qualsiasi altro sito internet di qualsiasi altra natura) non è che rimasto che l’11%. «Una struttura di mercato malata», ha scritto in un tweet Jason Kint, Ceo di Digital Context Nex un’associazione che rappresenta alcuni dei più importanti editori su digitale. Difficile dargli torto.
Nei prossimi anni, questa quota sembra destinata ad aumentare ancora. Proprio per questo, molte testate stanno cambiando completamente strategia, proprio come il New York Times, che sta puntando molto sui ricavi provenienti dal lettore e sugli abbonamenti. Se torniamo ai dati che abbiamo dato all’inizio di questo capitolo, vediamo che il peso dei ricavi da diffusione e abbonamento al Times sono passati dal 23% del 2000 al 54% del 2015 (una quota che nel 2017 dovrebbe arrivare intorno al 60%). Insomma, il Times (e come lui altri grandi testate) si sta costruendo una sorta di exit strategy dalla dipendenza dai ricavi da pubblicità, un ribaltamento del proprio modello di business come mai avvenuto prima.
Descritto questo scenario possiamo chiederci: che ruolo giocano in tutto questo i dati? La risposta è abbastanza facile: un ruolo fondamentale, da assoluti protagonisti. Se le analisi di Zenith mettono quindi in evidenza come il declino della stampa e la contemporanea crescita dell’internet advertising siano strettamente collegati, il primo è conseguenza del secondo, e se il mercato della pubblicità digitale vive oggi sostanzialmente un duopolio è proprio grazie (o per colpa, a seconda dei punti di vista) ai dati.
Quelli che i due protagonisti della Silicon Valley hanno fatto – come tutti dovremmo aver capito ormai da tempo – è stato creare delle piattaforme che, favorendo lo scambio di relazioni sociali (Facebook) e di servizi e ricerche su internet (Google), raccolgono un’infinità di dati sui propri utenti. Dati che permettono una precisione chirurgica nell’indirizzare e pianificare le campagne pubblicitarie, che fino a poco più di un decennio fa gli advertiser potevano solo sognarsi.
Oggi il “Sacro Graal della pubblicità digitale” è sincronizzare le informazioni personali degli utenti con la loro cronologia di navigazione sul web e l’utilizzo di app su telefonini e tablet. Grazie a questo Facebook e Google – disponendo di una platea sterminata di utenti nei loro siti – hanno conquistato un ruolo di assoluto dominio sulla concorrenza facendo lievitare, trimestre dopo trimestre, i loro fatturati pubblicitari.
Perché sì, non è certo una novità che l’industria della pubblicità abbia da sempre bisogno di dati per cercare di indirizzare al meglio i propri messaggi e renderli più efficaci, ma è proprio negli ultimi anni che la corsa a informazioni sempre più “performanti” e connesse con le azioni concrete dei singoli utenti, online e offline, ha assunto un’importanza vitale per i grandi investitori. Già oggi, il digitale rappresenta una fetta consistente della torta complessiva della spesa pubblicitaria, ma sarà soprattutto nei prossimi anni che questa quota diverrà predominante rispetto agli altri media. Secondo recenti e autorevoli stime di Magna (società del gruppo Interpublic), nel 2021 sul digitale verranno investiti, a livello globale, metà dei soldi spesi complessivamente in pubblicità. Ovvero circa 300 miliardi di dollari (nel 2016, secondo queste stime, sono stati 178 miliardi).
A Facebook sono stati tra i primi a capirlo e a muoversi su larga scala in questa direzione, con i bottoni “mi piace” o quelli di condivisione, ad esempio. Presentati come un magnifico servizio per gli utenti, in realtà queste funzioni sono prima di tutto un modo per tracciare passivamente la nostra cronologia sul web e il nostro utilizzo delle app su tablet e smartphone e poi combinarli con i molti dati personali che Facebook possiede sui propri iscritti in maniera diretta o indiretta.
Ma non solo Zuckerberg e soci, già dal 2012, hanno cominciato ad acquistare grandi quantità di informazioni – e molte riguardano la nostra attività offline – dai maggiori broker di dati commerciali (come ad esempio Acxiom o Experian, aziende il cui nome circola molto poco sui media pur avendo migliaia di dipendenti, fatturati miliardari e operino in questo campo ormai da alcuni decenni). Il sito di giornalismo investigativo ProPublica ha denunciato in un suo articolo che Facebook «dà agli utenti poche indicazioni sul tipo di dati personali acquistati che li riguardano, tra i quali il loro reddito, i tipi di ristoranti che frequentano e anche quante carte di credito sono nei loro portafogli».
Google ha affermato di aver stretto accordi con alcune aziende esterne per avere accesso ai dati degli acquisti offline, effettuati da circa il 70% delle carte di credito attive negli Stati Uniti d’America.
Sempre Google ha deciso di superare una linea di confine che, almeno ufficialmente, non aveva mai varcato per quasi un decennio associando le informazioni personali degli utenti raccolte dai suoi servizi (Gmail, Google Map, Google document, per citarne solo alcuni delle molte decine che ha attivato). In questo scenario le grandi holding pubblicitarie sono oggi costrette a rivedere e correggere i propri modelli di business: già qualche mese fa, Greg Paull (fondatore di R3, una delle maggiori agenzie di consulenza marketing al mondo) ha dichiarato alla rivista AdWeek che due terzi dei ricavi di Wpp (14,4 miliardi di sterline nel 2016) entro pochi anni saranno generati dai dati e dal digitale.
Per dare un’ulteriore idea di quanto oggi i dati determinino il rapporto di forze tra le agenzie pubblicitarie (tra le quali, di fatto, dobbiamo mettere anche Google e Facebook, che lo sono a tutti gli effetti), riporto ciò che dichiarò a una rivista specializzata Slavi Samardzija per spiegare il successo della sua agenzia:
Il vero elemento di differenziazione si trova nelle migliaia di singoli dati personali che circondano ogni profilo utente anonimo nel database su cui Hearts&Science ha costruito il suo business. Per sottolineare questo concetto, Samardzija estrae un profilo di un uomo con più di 40 mila di questi singoli dati che rivelano da dove ha comprato il suo caffè o quanto spesso va in palestra fino a quali siti di notizie politiche frequenta
Con la discesa in campo dell’intelligenza artificiale nel settore della pubblicità, si aprono poi – anche sotto questo aspetto – nuovi scenari. IBM, per esempio, ha lanciato a ottobre dello scorso anno la versione di supporto ai pubblicitari del suo gioiello tecnologico: il sistema cognitivo Watson (chiamato non a caso Watson Ads). Il software aiuterà gli utenti a raggiungere le informazioni che cercano, o ad anticiparle, mentre viene proposto un determinato prodotto in vendita. Allo stesso tempo sarà in grado anche di predire le nostre ricerche e anticipare i nostri desideri di acquisto, utilizzando l’analisi dei dati online, e le nostre tracce digitali. La promessa è quella di fornire servizi sempre migliori agli utenti, ma si può facilmente comprendere quali enormi potenzialità abbia lo smart-advertising, capace di dialogare con i clienti e di immagazzinare dati personali.
Gli editori di giornali, in questo contesto, si sono trovati completamente spiazzati. La drammatica crisi delle vendite delle copie cartacee ha ridotto proporzionalmente gli spazi pubblicitari (oltre ovviamente ai ricavi da diffusione). Sul digitale molti di loro hanno inseguito una logica che ricreava il vecchio modello: come formato pubblicitario hanno scelto il banner (che riprende, più o meno, il formato pubblicitario classico), inseguendo il maggior numero di clic per massimizzare i ricavi pubblicitari. Gli editori di giornali non hanno quindi guardato a creare comunità connesse e partecipi dentro i loro siti, anche quando questi non avevano la concorrenza di piattaforme sociali come Facebook.
Basti pensare che, banalmente, se non “loggati”, un qualsiasi sito di un grande giornale è perfettamente leggibile in tutte le sue parti, mentre Facebook, al contrario, dà una versione di sé estremamente ridotta ai non registrati. I giornali hanno gestito i commenti dei lettori quasi sempre male, se non malissimo, o ancora peggio come un fastidio che non competeva loro (tanto che molti giornali hanno deciso in questi anni di chiuderli). Mentre Facebook e altri social media, sulle conversazioni e le condivisioni di opinioni, hanno costruito un impero. Eppure, tutti questi strumenti e pratiche sono serviti ai giganti dei social media per aggregare, far crescere e prosperare una comunità di lettori-utenti sempre più grande. Una comunità di utenti che concede poco consapevolmente, come già scritto, una quantità enorme di dati sulle proprie abitudini, i propri gusti nei campi più disparati, i luoghi che frequenta. Dati che oggi sono fondamentali per indirizzare al meglio una campagna pubblicitaria, e che fanno la differenza quando un responsabile marketing di un’azienda o il responsabile di pianificazione mezzi di un centro media deve decidere dove investire il proprio budget.
Resta però ancora una domanda fondamentale: chi sono i legittimi proprietari dei dati generati dalle campagne pubblicitarie che così tanto denaro stanno generando e che stanno ridisegnando completamente lo scenario di questo mercato? È interessante leggere un sondaggio lanciato dalla testata MediaPost qualche tempo fa sulla base di diverse centinaia di dirigenti di aziende. Secondo molti di loro (il 60% degli investitori pubblicitari) sono i marchi i legittimi proprietari; secondo il 49% dei dirigenti delle agenzie sono invece le agenzie stesse a esserne proprietarie. Immancabilmente ultimi gli utenti con percentuali nettamente inferiori (10-15%). Un risultato che non sorprende, ma che ci dice quanto oggi sia importante porsi seriamente quella stessa domanda e, ancora più importante, sentire forte l’esigenza che a decidere la risposta finale non sia solo qualche top manager della filiera della pubblicità, o un CEO di qualche azienda tecnologica che su quei dati ha costruito la sua fortuna.