Aprile le buche, maggio i bus in fiamme, giugno sarà la volta degli alberi che cadono, luglio le cavallette, agosto il Tevere insanguinato. Le piaghe di Roma. Il mese del vuoto è appena passato e ancora si sente di voragini aperte (una ogni 36 ore, pare). Se dovesse essere confermata la tendenza, a fine anno Roma potrà essere sforacchiata da 176 inghiottitoi profondi come pozzi di campagna. Macchine parcheggiate semi-tirate giù dall’asfalto, crepacci che ingoiano con sé terra, arredi urbani, biciclette, frammenti di marciapiede, erbacce, motorini, sassi, e ancora nessuna persona. Poi, inutile dirlo, molte di queste voragini diventano discariche, si tappa il vuoto con la monnezza.
Il catalogo del vuoto romano va dalle voragini alle buche, non così tanto profonde ma abbastanza profonde da diventare, quando piove, pozzanghere dal fondo sempre meno percettibile – i bambini ci saltano dentro e spuntano fuori solo i capelli, le ruote si squarciano, la guida diventa uno zig zag, i vetri dei bus si spaccano per quanto ballano su e giù. Dopo le buche, in ordine di grandezza, ci sono le fessure fra i sampietrini che mangiano tacchi, forchette, braccialetti, caviglie di turisti. Ma queste buche (grandi o piccole che siano) non portano solo giù cose.
Come con i pozzi la curiosità sale, si sbircia sotto, ci si tirano gli oggetti per sentire “tonf”, per far tornare su qualcosa, un’immagine buia o solo un suono. Roma torna su, ascende, risorge, sconvolge i tempi, accosta epoche. Non sprofonda, questa non è la Roma suprema che decade, è la Roma sotterranea che emerge, il lato ctonio che viene fuori. E noi la spiamo. Le necropoli, le ville patrizie, ipogei privati, templi nascosti come i mitrei, ma anche i laghi neri sotto la circonvallazione gianicolense o quelli ancora più neri sotto la metro – ci sono delle fosse d’acqua scurissima alle quali si può accedere solo attraverso porte serrate da chiudere e aprire ermeticamente.
Il mese del vuoto è appena passato e ancora si sente di voragini aperte (una ogni 36 ore, pare). Se dovesse essere confermata la tendenza, a fine anno Roma potrà essere sforacchiata da 176 inghiottitoi
E dopo il mese del vuoto, è arrivato il mese del fuoco. I bus s’incendiano da soli e subito i romani esorcizzano la paura con meme e battute di ogni genere come «A noi non serve l’Isis, abbiamo l’Atac» o l’audio che va in giro su WhatsAapp: è il bus 63 che dice «Me dò foco, avevo pensato de buttamme nel Tevere ma c’ho paura dei topi». Non è né un incidente né un complotto ma una protesta stile monaco tibetano – “e nun faccio nemmeno troppi danni ‘che sto sempre in riserva». Ecco la disgrazia che diventa subito spettacolo, la realtà che torna ad essere meno spaventosa grazie al gioco, alla presa in giro costante. In effetti, come si fa a non ridere del fuoco che avvolge proprio il bus con scritto dietro “Giudizio Universale”? Colonne di fumo, palazzi carbonizzati, gente che urla, non sono niente per Roma – ne ha viste troppe.
E pian piano il mese del fuoco lascia il posto al mese della caduta. Gli alberi perdono l’equilibrio e si sfracellano – un platano sul bus a Prati, un pino di venti metri su un parco giochi vicino Termini. I pini antichissimi (già nel 200 aC. esisteva un boschetto sacro dedicato a Cibele), parte dell’identità estetica di Roma, ci ricordano vecchie storie con le loro radici pericolose, che escono dal terreno e rendono gobbe le strade, le squarciano. A proposito di alberi romani come non ricordare Spelacchio: da una banale scelta della sindaca è diventato una star, l’albero più amato e discusso dello scorso Natale. Perché non serve essere belli a Roma per far parlare di sé, basta il carisma. E a volte, chiamatelo oggettivo umorismo, chiamatela eterogenesi dei fini, chiamatelo “aho e che che ne so”, il carisma nasce dai dadi del divin fanciullo.
La verità è che l’assenza di una progettualità, di un governo presente, lascia spazio alla natura della città, che è sfasciata, dispettosa, minacciosa. Emerge la Roma metafisica, con i suoi dei che si burlano di chi fa troppo il serio, di chi esce dall’umore millenario di questa città: un umore mattacchione, Roma si burla di noi. Frane, crolli, fuoco, come se fossero degli scherzetti – poi qualcuno ci capita dentro e sembra di stare in una scena di Apocalypse Now, ok, ma Roma ci guarda e sogghigna sotto al ventaglio.
Anche se si mangiano la Raggi e la sua giunta, fra di loro i romani scherzano, ridicolizzano, rendono i piccoli disastri quotidiani entertainment – portano avanti la farsa romana, lo spirito della città
E non è la Raggi. Con Marino e Alemanno era lo stesso. L’amministrazione romana è sempre in difficoltà, non potrebbe essere altrimenti, e non per la burocrazia, la sua estensione, le mafie, no, ma proprio per la sua natura. Mattacchiona. Assecondare l’ingovernabilità di Roma, lasciarla a se stessa e alla sua gente, è prestare le proprie labbra a una voce che non le appartiene, come la forza che spinge il sangue nelle vene o fa sprofondare nel sonno. Il problema della Raggi non sono le buche o la monnezza ma l’assenza di colpi di testa. Se a Roma e ai romani togli le pazzie come un concerto gratuito ai Fori, una vera festa con carri e costumi, spettacoli che possono ricordare quelli che facevano i gladiatori al Colosseo, ti mangiano e si attaccano alle buche o alla monnezza.
Bisogna controbilanciare i crolli, il fuoco, le cadute, con feste, concerti, coriandoli colorati – solo così, forse, gli dei si placheranno o almeno saranno impegnati a ridere di un’altra follia. Comunque, anche se si mangiano la Raggi e la sua giunta, fra di loro i romani scherzano, ridicolizzano, rendono i piccoli disastri quotidiani entertainment – portano avanti la farsa romana, lo spirito della città. Dalle buche groviera, bacini in cui pescare, nidi per uccelli, guida da ubriaco, al fuoco con giacche bruciacchiate alle riunioni. Del mistero non può che darsi parodia, e la parodia non è mai finzione, non mette in dubbio la realtà, anzi, porta su tutti gli elementi, li rilavora, li tiene sospesi finché non sono pronti per essere digeriti.
Rendere le cose, anche le più gravi, dei meme, delle battute virali sul web, dei murales – questo è lo spirito di Roma. Anche per i turisti è meglio così, devono imparare ad usare Roma, a profanarla, a sbirciare fra le buche, a scappare da un bus in fiamme, a farsi rincorrere dai topi, perché Roma non è un museo dove ritirare docilmente tutto ciò che un tempo era vivo. Morale: anche se chi sta al potere non fa follie, non ha abbastanza estro per governare (lasciandosi governare da) Roma, il popolo romano trasforma tutto, seguendo la vena di pazzia ctonia. La Raggi o chi per lei, in qualche modo, può campare di rendita, può anche stare ferma come una statua di sale, i romani ci penseranno da soli a trovare qualcosa per urlare o ridere a crepapelle, per saziare quella fame di giochi sacri e controbilanciare l’ira divina.