Fino a ieri sera esisteva un’espressione che, a prescindere dal contesto, era in grado di rappresentarci come popolo. “Fare all’italiana” era più che un’espressione: era una caratteristica antropologica, la forma mentale di un Paese che piuttosto di azzardare una scelta tra bianco e nero si inventava di volta in volta una nuova sfumatura di grigio, per avere la certezza di continuare a galleggiare. “Facevamo all’italiana” perché ci andava bene il compromesso al ribasso, quel venirci incontro che ci faceva si guadagnare di meno, ma almeno ci faceva stare sicuri di guadagnare entrambi.
E la politica, che del popolo è sempre specchio fedele, incarnava alla perfezione questo tratto determnante del nostro genoma. Le “convergenze parallele”, il governo “della non-fiducia” fino all’ultimo capolavoro de “l’astensione benevola”: versioni diverse della stessa supercazzola priva di significato, che grazie a un significante complicato fino al parossismo puntava solo ad imbrogliare le carte, e a rimandare a data da destinarsi il momento in cui finalmente avremmo dovuto assumersi la responsabilità di una decisione, qualunque essa fosse.
Più che sul lavoro, insomma, eravamo una Repubblica fondata sul giro di parole, e infatti anche la nostra Costituzione è una straordinaria collezione di giri di parole, di eufemismi, di non detti o detti in modo che sia vero tutto e il contrario di tutto, a seconda della mediazione del momento.
Ma tutto questo accadeva fino a ieri, fino al momento in cui il Presidente della Repubblica ha chiesto ai due azionisti di maggioranza del governo che sarebbe dovuto nascere di “fare all’italiana”, e di rinunciare a Paolo Savona come prossimo ministro dell’Economia.
Solo un piccolo compromesso, un dazio da pagare per far capire a chi di dovere che dietro alla grezzezza della forma in realtà niente era cambiato, la situazione era grave ma come al solito non seria, e questo “cambiamento” era soltanto una definizione un po’ aggressiva, come avevano scritto i tedeschi, ma niente di più. Un colpo di bianchetto e via, tutto sarebbe tornato a posto.
Quel popolo di 17 milioni di “barbari” non ha eletto Salvini e Di Maio perché diventassero una versione più rozza di Fanfani e Rumor ma li ha eletti dando loro il mandato preciso di andare nei palazzi del potere e di aprirli come la famosa scatoletta di tonno, esattamente come il popolo di Trump lo ha eletto per “bonificare la palude”
Ma quello che conta oggi, e che ha determinato una situazione inedita nella storia repubblicana e dalle conseguenze imprevedibili, è che né Salvini né Di Maio erano nelle condizioni di accettare la proposta di Mattarella, e non certo per scarsa esperienza politica o per “analfabetismo costituzionale”.
Se sono stati costretti a declinare è stato perché, purtroppo per Mattarella, quel popolo di 17 milioni di “barbari” non li ha eletti perché diventassero una versione più rozza di Fanfani e Rumor ma li ha eletti dando loro il mandato preciso di andare nei palazzi del potere e di aprirli come la famosa scatoletta di tonno, esattamente come il popolo di Trump lo ha eletto per “bonificare la palude”. Come avrebbero potuto tradire la ragione stessa della loro esistenza al primo test, e presentarsi davanti al loro popolo dicendo che avevano scherzato, che al loro nome era subentrato un altro con un passato al Fondo Monetario Internazionale? Forse il Presidente Mattarella non se ne è accorto, ma la politica, dai tempi della DC, è cambiata perché la società è cambiata: sono cambiati i tempi, i linguaggi e soprattutto sono cambiati gli Italiani, che di “fare all’italiana”, quando si tratta di cosa pubblica, non ne vogliono più sapere.Piaccia o non piaccia il Paese si è radicalizzato. Non è diventato fascista ma ha manifestato chiaramente la volontà di sperimentare forme di governo che con i cari vecchi formalismi cari alla nostra tradizione non hanno più nulla a che fare
Piaccia o non piaccia il Paese si è radicalizzato: non è diventato fascista ma ha manifestato chiaramente la volontà di sperimentare forme di governo che con i cari vecchi formalismi cari alla nostra tradizione non hanno più nulla a che fare. Lo stesso clamoroso consenso che prima Berlusconi e poi soprattutto Renzi furono capaci di accentrare su di loro, sta li a dimostrarlo.
Ora però siamo entrati in una fase successiva, e bastava sentire Di Maio al telefono da Fazio o Salvini in diretta su Facebook per rendersene conto.
Il primo – Di Maio – parlava fuori dai denti, macinando parole e concetti, primo tra tutti quelli dell’impeachment per il Presidente della Repubblica, che solo qualche tempo fa avrebbero costituito un reato di lesa maestà. Il secondo – Salvini – con lo schermo del cellulare a un centimetro dalla faccia, facendo a meno di microfoni e intervistatori, si rivolgeva direttamente alla sua gente in modo più controllato e misurato ma con la stessa forza e immediatezza data, di nuovo, dall’assenza di ogni tipo di mediazione.Entrambi, se paragonati al discorso di Mattarella, davano la sensazione di appartenere a un’altra epoca, la stessa di Trump ma anche di Macron, quella che invece di affrontare a viso aperto, raccogliendone le sfide e provando a rispondere colpo su colpo, il Presidente della Repubblica ha creduto di poter tenere fuori dalla porta.
Il risultato è che adesso la battuta scappata fuorionda a D’alema – “se fanno la campagna elettorale su Savona questi arrivano all’80%” – ora si staglia all’orizzonte come una profezia. Siamo ufficialmente entrati in una terra inesplorata abitata da gente sconosciuta: la terra è l’Italia e gli sconosciuti siamo noi.
Il problema è che quando si entra nelle terre inesplorate, a rischiare davvero e per primi sono sempre i più deboli