Grazie Philip Roth, perché ci hai insegnato che l’idea di farcela a tutti i costi è un’idiozia

Dal matrimonio della Markle al film di Garrone (e oltre) impera la retorica del riscatto, del “ce la farò”. Film e attualità ci vogliono mostrare il lato “motivazionale” della realtà. La verità è che abbiamo paura del fallimento. E Philip Roth l’ha spiegato (e confessato) meglio di tutti

Philip Roth ha detto, qualche anno fa, in un’intervista che era rimasta inedita fino a ieri, che avrebbe voluto essere ricordato “come uno che a un certo punto s’è fermato”. Chi lo sa se gli riuscirà. Intanto, la frase con la quale lo stiamo ricordando, per accomiatarcene, è: “l’ostinazione, non il talento, ha salvato la mia vita”. Fissata su uno status di Facebook, sembra una prescrizione di life coaching, una microstoria di tenacia e riscatto, fatica e traguardo, e vittoria, e premio.
Dev’essere per questo che è lì, copia-incollata in modo che riguardi del tutto noi e quasi per niente chi l’ha pronunciata. La fame che avevamo di lieto fine è diventata qualcosa di più specifico e cioè fame di riscatto ed è al riscatto, all’essersi rialzati, al successo sul destino, al volere che è potere, che riconduciamo tutto, smaniosi di trovare testimonianze che dimostrino il senso e, soprattutto, l’efficacia di “non mollare”. Così, Philip Roth è diventato, in poche ore, un tizio che, con diligenza e abnegazione, è diventato non tanto uno degli scrittori più importanti della contemporaneità, ma uno che ce l’ha fatta a diventare uno degli scrittori più importanti della contemporaneità. E, diamine, c’è una differenza abissale. Peggio dell’uso strumentale della letteratura, che la tradisce ma non l’annienta (scrisse Natalia Ginzburg che “è necessario scrivere senza alcuno scopo”), c’è solo l’uso strumentale dello scrittore.

Più parliamo di riscatto (sociale, umano, economico, perfino di classe), più i dati sulla depressione decollano. E dev’essere successo, allora, che questa del riscatto è diventata la retorica di un obbligo e che abbiamo finito con l’impiegarla per curarci dall’insostenibilità del fallimento

“L’escalation violenta di un uomo mite in cerca di riscatto” è il titolo che ha usato la Repubblica per un pezzo su Dogman ed è una semplificazione odiosa – ma del tutto comprensibile – perché Dogman è un film sull’abisso, sui rapporti di forza, la soggezione, l’inconciliabilità, e un centinaio di altri drammi che sono quelli più primitivi e inestinguibili della natura umana e dai quali redimersi è illusorio. Al protagonista del film, Marcello Fonte, ci si è appassionati più che al film perché incarna, in modo molto più immediato, quella “escalation”: l’uomo della provincia più impervia, meno sognata e meno sognante, con la faccia e il corpo da ultimo della terra, che gira il suo primo film e vince come migliore attore a Cannes e dice di aver sognato quegli applausi per tutta la vita dentro una grotta. L’attore è riuscito dove ha fallito il personaggio.

Il parlare abusato di periferie e rap e hip hop e trap è il racconto del margine che si rivale sul centro e centro finisce per farcisi. In realtà, persino nella trap, il punto è più il disagio che reca la retorica del rialzarsi che quello che reca l’abbandono. Di Meghan Markle non interessa nient’altro che la sua parabola d’ascesa: arriva l’americana più convenzionale del decennio (femminista, indipendente, attivista, divorziata: vi vengono in mente molte donne che, attualmente, non abbiano quasi tutte queste caratteristiche?), sposa un principe e il mondo le casca ai piedi perché ha trovato in lei quello che ciascuno è indotto a essere: la smentita delle congiunture, delle condizioni date, l’inatteso, l’improbabile, la scommessa vinta su cui nessuno avrebbe puntato, l’emancipazione dalla propria famiglia, dal proprio corpo, dal luogo in cui si è nati.

Intendiamoci, queste storie di persone che si rialzano (anche quando non sono cascate) e schiaffeggiano la sorte ci fanno anche bene. Ci fanno sperare (che anche noi potremo, che anche noi vinceremo, che il premio per la propria fatica è un diritto inalienabile e garantito).

Tuttavia, incredibilmente, più parliamo di riscatto (sociale, umano, economico, perfino di classe), più i dati sulla depressione decollano. E dev’essere successo, allora, che questa del riscatto è diventata la retorica di un obbligo e che abbiamo finito con l’impiegarla per curarci dall’insostenibilità del fallimento, il nostro più grande tabù, la nostra peggiore malattia.

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