I consumi rallentano e mostrano un’Italia sempre più divisa tra ricchi e poveri

Nonostante le stime siano nel positivo, il quadro delineato dalla ricerca Nielsen sui consumi degli Italiani mostra un Paese frammentato sia per la geografia che per le abitudini. Unica sorpresa: gli italiani escono a cena di più

Sembrava che fosse ripartito, ma sta già rallentando. Il largo consumo in Italia, dopo tre anni di crescita sia nei fatturati che nei volumi di vendita, comincia a frenare. Secondo la ricerca condotta da Nielsen Italia e presentata all’annuale convegno “Linkontro” di Santa Margherita di Pula, i primi quattro mesi del 2018 tendono alla lentezza: solo +1% nel valore e +0,4% nei volumi rispetto allo stesso periodo del 2017. Se si pensa che un anno fa, nello stesso periodo, si registrava una crescita del 2,2% nel valore e dello 0,9% nel volume rispetto al 2016, sembra necessario farsi qualche domanda.

Lo scenario generale mostra una grande frammentazione, sia dal punto di vista geografico che da quello delle abitudini dei consumatori. In linea di massima, mentre le regioni del Nord (sia est che ovest) sembrano calare di poco, con un 3,2% del 2018 contro un 3,7 del 2017, nel Sud il dato è addirittura negativo: -1,8% – mentre l’anno prima cresceva del 2,7% (il Centro è, invece, stabile: +2,4% con un 2,3% del 2017).

Non solo: le rilevazioni mettono in luce anche differenze nei prodotti acquistati. Calano i piatti più tradizionali, come pasta, riso e condimenti (-1,1%) e lo fanno soprattutto al Sud. In crescita sono i piatti già pronti, che vedono una variazione di + 7,1% sul 2017 (che già era in crescita del 6,5% sul 2016) e i piatti unici (+6,3 e nel 2017 era + 7,4%). Si nota anche che i consumatori spendono di più per prodotti gourmet (+7%, sia nel 2018 che nel 2017) e per la salute e il benessere – ma anche qui si registra un piccolo calo: +5,6% a fronte del 7,4% dell’anno precedente.

Un’Italia frammentata e sempre più polarizzata. Questo potrebbe spiegare la convivenza, nello stesso periodo, di una crescita del fatturato dei discount insieme a quella dei prodotti con certificazioni – cioè di maggior qualità

Insomma, la spesa cambia. Come dice l’amministratore delegato di Nielsen Italia Giovanni Fantasia, «stiamo assistendo a un’evoluzione nel mondo dei consumi della grande distribuzione». Evoluzione che non può nascondere il fatto che «siamo davanti a un andamento più contenuto del processo di crescita», ma che mette in luce anche altri elementi: da un lato, «le ampie sacche di povertà ancora presenti sul territorio nazionale», dall’altro «l’accentuazione della polarizzazione e dello status sociale».

È appunto un’Italia frammentata e, a quanto pare, sempre più polarizzata. Questo potrebbe spiegare la convivenza, nello stesso periodo, di una crescita del fatturato dei discount, che arriva a un +1,5% e che va a discapito della grande distribuzione (-0,9%), insieme a quella (+3,6%) dei prodotti con certificazioni – cioè di maggior qualità – e di quelli targati “bio”, che crescono del 14,9% e dei “veg”, saliti del 9,8%. Senza dimenticare i buoni risultati dei prodotti di consumo consapevole, come i cosiddetti “rich in”, cioè quelli ad alto contenuto di calcio, di omega3 e di farina integrale, o i “free from”, cioè quelli senza olio di palma, o zuccheri aggiunti, o con poche calorie.

La curiosità: gli italiani hanno ripreso a uscire di casa per mangiare. Da gennaio a marzo il 64% è uscito almeno una volta a pranzo o a cena

Si tratta di tendenze già riscontrate in una precedente ricerca di Nielsen sui nuovi profili di acquisto degli italiani: delle cinque classi individuate due erano quelle in aumento, cioè i “Golden”, ossia le famiglie in età centrale senza figli, caratterizzate da un consumo raffinato, attento al “bio” e ai prodotti in generale con alto valore aggiunto, e i “Low Price”, di solito famiglie giovani con figli che hanno una capacità di spesa sotto la media. Ricchi da una parte e poveri dall’altra, per capirsi. A svuotarsi è la sacca della classe “Mainstream”. Fenomeno che, come spiegava la ricerca, «rispecchia la più generale polarizzazione economica che sta avvenendo nel nostro Paese e il conseguente assottigliarsi del ceto medio».

In tutto questo, un fatto curioso c’è: gli italiani hanno ripreso a uscire di casa per mangiare. Da gennaio a marzo il 64% è uscito almeno una volta a pranzo o a cena. Di questi, il 42% si è lanciato ad assaggiare cibo etnico, cioè straniero. Solo il 15% afferma di averlo fatto perché il costo è minore rispetto ai ristoranti italiani, mentre il 42% sostiene di voler provare gusti nuovi e diversi.

Sia come sia, la tendenza è chiara: al primo posto ci sono i ristoranti cinesi (che non sono famosi per essere cari) al 23%, seguiti dai giapponesi al 22%, e poi giù giù si trovano i messicani (9%), turchi, cioè kebabbari, all’8% e indiani al 5%. La città capofila? È Milano, che vanta il 39,4% di ristoranti stranieri sul totale, seguita – ma non ci si dovrebbe stupire – da Prato, forte della sua imponente comunità cinese, con il 31,3% di ristoranti stranieri. All’ultimo posto c’è Napoli, che arriva solo al 3%. Dato che certifica, se mai ce ne fosse stato bisogno, che di fronte alla cucina napoletana non c’è sushi o sashimi che tenga.

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