La vox populi attribuisce un sentimento smarrito all’ex-elettore di sinistra che ha votato Cinque Stelle e si è trovato con Salvini al governo, forse trasferendo nella situazione attuale schemi psicologici vecchi di mezzo secolo: un elettore Pci che vota Psi e si ritrova Almirante ministro; un elettore Dc che vota liberale e si ritrova Togliatti a Palazzo Chigi. Ma nel mondo nuovo della post-politica quel tipo di schema è saltato. Anzi, in questi giorni abbiamo visto sulla rete un fenomeno mai accaduto prima: militanti dei due partiti che si affacciano sulle bacheche dei leader fino a ieri avversari per interloquire, manifestare solidarietà, complimentarsi, ricevendo dagli abituali frequentatori di quelle bacheche applausi e congratulazioni.
«Sono un elettrice Cinque Stelle, non dimenticate i vaccini nel programma», scrive Sofia a Matteo Salvini. «Sono un militante leghista, avanti insieme per la sicurezza», scrive Carlo T. a Luigi Di Maio. Nella dinamica delle bolle social – dove ciascuno parla coi “suoi” e dagli “altri” va solo per fare il bullo – è una cosa davvero inedita, e insieme un ottimo test sulla compatibilità dei due elettorati e sull’esistenza di fili comuni che prescindono dalla nostra tradizionale visione di destra e sinistra. Per molto tempo abbiamo dimenticato che queste due filiere politiche hanno avuto in Italia una declinazione assai diversa che altrove: abbiamo avuto la sinistra più movimentista d’Europa e, al tempo stesso, la destra “meno di destra” del continente.
Votare Cinque Stelle e ritrovarsi Matteo Salvini al governo forse non era previsto dagli ex-Pd, ma risulterà accettabile alla maggior parte di loro, almeno per un po’, fino a quando reggerà la retorica del “grande cambiamento”
Siamo il Paese dove per moltissimi anni Pci e Msi hanno votato allo stesso modo, contro le stesse leggi e lo stesso partito (la Dc), con interventi spesso sovrapponibili per argomentazioni e invettive. Siamo il Paese dove Silvio Berlusconi ha potuto arruolare, all’inizio della sua avventura, ex-comunisti ed ex-liberali in polemica col loro mondo come Lucio Colletti, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa, Vittorio Mathieu, e non fu solo opportunismo, anzi. Siamo il Paese dove i socialisti di Bettino Craxi vinsero il referendum sulla scala mobile sostenuto da Confindustria contro Berlinguer e Almirante per l’occasione alleati. Insomma, le nostre “casematte” politiche sono più confuse di quel che generalmente pensiamo e tutte le grandi rupture politiche del dopoguerra sono legate all’improvviso emergere nei reggimenti avversari di sentimenti nascosti, che nessuno sospettava.
La sinistra, e in particolare il Pd che ha raccolto l’eredità anche organizzativa del Partito Comunista più forte d’Europa, era riuscita finora a tener chiusi i recinti meglio di altri. Ma è da tempo che si affaccia fra i suoi ranghi una cultura affine ad altri mondi, in teoria lontanissimi. I molti sindaci che hanno cercato voti col “no” ai migranti in totale contrasto con la linea del partito, a cominciare dall’emblematico primo cittadino di Capalbio, sono una riprova di questa tendenza. Alla quale possiamo aggiungere i lapsus freudiani dei parlamentari sulla “razza bianca”, o i manuali di buone maniere inviati ai dirigenti («I vestiti devono essere puliti e ordinati») così simili ai consigli berlusconiani sulle mentine da portare sempre in tasca per rinfrescare l’alito. Per non parlare della propensione a semplificare, della tattica del «Ciaone» o dei «Gufi», che non è solo un fatto di costume ma un dato di cultura politica: liquidare problemi difficili con l’iperbole o lo sberleffo.
«Se io avessi previsto tutto questo…» cantava Francesco Guccini nella sua celebre invettiva contro la stupidità dei suoi compagni, «L’avvelenata». Ma stavolta quella canzone la canteranno in pochi: votare Cinque Stelle e ritrovarsi Matteo Salvini al governo forse non era previsto dagli ex-Pd, ma risulterà accettabile alla maggior parte di loro, almeno per un po’, fino a quando reggerà la retorica del “grande cambiamento”.