Il bastone. Ma cosa c’entra la finale di Ballando con le stelle? “Osserva”, mi fa, una femmina, adornata del consueto cinismo femminile. “Quattro maschi in finale. Di diversa tipologia. Dal giovane fusto al fascinoso di mezza età. Solo due donne. Una al di là del desiderio erotico, Nathalie Guetta; l’altra bellissima ma martoriata, un simbolo che pacifica tutti, Jessica Notaro”. Che significa? “Che il pubblico è quello. Donne. Possibilmente pluriquarantenni. Un poco allupate”. Elementare, Watson. Lo sketch è lecito per spiegarmi un fatto. Si sa, d’estate si leggono i ‘gialli’. In cima alle classifiche delle vendite librarie, oggi, galleggiano Maurizio De Giovanni e Antonio Manzini, invero, davvero modesti interpreti del ‘genere’. Perché vendono? Semplice. Perché a leggere, in Italia, sono solo donne. Per lo più pluriquarantenni. Tendenzialmente allupate. Le stesse che guardano Ballando con le stelle. Prendiamo l’ultimo libro di De Giovanni, Sara al tramonto. Protagonista femminile, Sara, già poliziotta, canonico dramma d’amore in petto, fisionomia anonima – questa è la sua forza – sa leggere le labbra. E quale dialogo spia in un parco pubblico? Quello tra una babysitter di 27 anni che si fa sbattere dal padre del bimbo che bada, “un facoltoso professionista”, e una mammina che la dà volentieri a “un istruttore di spinning” (la tizia è talmente infuocata dalla conversazione che “continua ad accavallare le gambe” e si tocca “la punta del seno con la mano”, autoeccitandosi). Tra l’altro, la socia in investigazioni di Sara, Teresa, geniale nel rimestare nel risaputo (“I social. Ora è tutto là. Oltre a quello che la gente condivide in Rete pare non esista altro”: ma va là? Pare una Miss Marple rediviva), ama farsi cavalcare dai giovanotti, per “vendetta contro un ex marito al quale piacevano le ventenni”, certo, ma soprattutto per “il sesso in sé, l’attività più divertente e gratificante che riusciva a permettersi”. Insomma, nel romanzo di De Giovanni, più s’infittisce il mistero più è tutto un fotti fotti, immaginiamo l’estasi del gentil pubblico. All’appello, però, mancano le palle, perché la scrittura di De Giovanni è casta, pudica, perfino tragicomica, pare uno che indossi costumi fantozziani on the beach. L’arrapata Teresa, infatti, che “veniva dai Servizi” e voleva “far capire a tutti che il maschio alfa in giro era lei”, quando s’avventa sul ragazzino che potrebbe essergli figlio, “allungò la mano sull’inguine”; in seguito “gli accarezzava il pacco”. La parola inguine al posto di regale minchia e pacco al posto di pisello lo farebbe ammosciare pure a Raymond Chandler, ma De Giovanni, d’altronde, pensa al pubblico di Ballando con le stelle. Al contrario di Teresa, Sara è donna dalle voglie represse, quando uno la assale per strada, da dietro, lei “sollevò piano la gonna” e “gli sferrò un calcio tra le gambe”, sui coglioni insomma. Teresa le palle le succhia, Sara le devasta. Un po’ quello che fa il romanzo di De Giovanni, la cui trama è tanto patetica che la aggiriamo, standone alla larga. Non va meglio con Antonio Manzini, che ne L’anello mancante se la cava con poco, assemblando cinque racconti già pubblicati altrove. Stordito da dilettante narcisismo che neanche un Simenon (“i libri di Rocco marcano l’evoluzione, o l’involuzione, psicologica esistenziale e temporale del vicequestore… considero la serie di romanzi, capitoli facenti parte di un’opera unica”), Manzini ritiene che basti un poliziotto cinquantenne, vedovo, dai modi rudi e dallo spinello facile, ormai risolto nel viso di Marco Giallini, a creare un ‘tipo’. Col cavolo. Rocco Schiavone va bene per essere acclamato dal pubblico di Ballando con le stelle, come un Cesare Bocci. I racconti, in effetti, hanno trame striminzite e biodegradabili: quello che dà il titolo al ciclo comincia con un ignoto cadavere scoperto riesumando il corpo di una Veronica Guerlen Bresson che “in vita si dava molto da fare” – cioè, la dava a volpi e a porci: questi giallisti sono ossessionati dal sesso, con un grottesco senso del pudore – per finire con una vicenda pia di poveracci che occultano il morto per continuare a godere della sua per altro misera pensione. Stessa storia per L’eremita, banale storiella di un prete scomunicato per non aver rispettato il segreto del confessionale, ucciso per vendetta, quindici anni dopo i fatti – curioso, piuttosto, è il malcelato invito all’acquisto, “tu te ne vai in giro a comprare i libri di Camilleri”, tanto son della stessa parrocchia editoriale, Manzini e Camilleri… Il racconto più assurdo, comunque, s’intitola …e palla al centro. L’idea è pure curiosa: si narra la partita di calcio, a scopo benefico, tra polizia e magistratura. Per scriverla, va da sé, ci vorrebbe un Giovanni Arpino, invece abbiamo solo un Manzini. Così, la chiusa, di adolescenziale stupidità – la polizia vince 18 a 2 perché Rocco ha messo del Guttalax nel Gatorade dei magistrati – rende il ‘pezzo’ una pièce buona per il Lino Banfi dei tempi eroici, quello de L’allenatore nel pallone. Valutata l’inconsistenza estetica dei libri di De Giovanni e Manzini, resta l’happy end. I due giallisti in coro sono la Milly Carlucci della letteratura odierna.
Maurizio De Giovanni, Sara al tramonto, Rizzoli 2018, pp.360, euro 19,00
Antonio Manzini, L’anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone, Sellerio 2018, pp.244, euro 14,00
La carota. Va bene, hai ragione. Il mio amico Bruno Giurato, Empedocle intriso di catrame milanese, mi ringhia addosso il nome di Giorgio Scerbanenco. Certo, ovvio. Ma non mi va di vincere facile. Scerbanenco li dilania. Il problema è che per scrivere ‘gialli’ – per scrivere in genere – ci vogliono attributi, testa fina, energia spasmodica. Per rispondere al duo De Giovanni-Manzini comincio ripetendo lo stesso nome. Flavio Santi. Intellettuale di genio – si è laureato in Filologia Medioevale – poeta di platino (leggete Mappe del genere umano, 2012), romanziere virtuoso (Aspetta primavera, Lucky, pubblicato nel 2011 per un piccolo editore, entrò nel giro dello Strega). Dal 2016, con La primavera tarda ad arrivare, s’è dato al giallo, creando un ‘tipo’, l’ispettore Drago Furlan, che guida come un drago la Guzzi, è friulano, tifa Udinese, pare Hemingway. Ne ho già parlato, su questo foglio. Vi rammento che è uscita la seconda avventura, L’estate non perdona. Di Santi preferisco leggere altro, di solito, ma visto che ciò che di solito si legge in libreria fa schifo, di Santi non butto via nulla. Perché? Perché sa quello che fa. Usa il ‘genere’. E lo sfotte, lo sputtana. Senti come suona. “In alto il sole. Sole allo zenit. Sole che spacca le pietre. Sole di sale. Salino, marino, adamantino, da farci le poesie con le rime tanto è bello e intenso. Sole immenso. In basso i culi. Intere batterie di culi che cannoneggiano sfrontati. Contraeree di tette che si alzano in volo. Un’artiglieria di cosce che sfila davanti a te”. Ergo: sogno Flavio Santi in cima alla classifica delle vendite – anche se preferisco che mandi affanculo il ‘giallo’ per scrivere un romanzo che spedisca in soffitta Thomas Mann. Secondo. Roberto Barbolini. Pacato, ironico, pacificamente perfido, il ‘Barbo’ è esimio esperto del ‘genere’ – tra l’altro, ha introdotto il ‘Meridiano’ Mondadori che raduna le opere di Dashiell Hammett – e l’anno scorso, per La Nave di Teseo, ha firmato l’adunata di racconti Vampiri conosciuti di persona. Ma non è questo il punto. Barbolini, infatti, è uno dei massimi esperti nella contraffazione di Conan Doyle. Proprio così. Piglia di peso Sherlock Holmes e gli cuce addosso nuove avventure. Dieci anni fa, ad esempio, nella raccolta mondadoriana Beethoven 27%, Sherlock Holmes fa capo a Carpi, “alle 12 precise del 24 luglio 1913”, in un racconto dal titolo giocoso, Il mastino di Bakerville. Nel breve pezzo di stile, spassoso, si racconta anche l’incontro tra Conan Doyle e Dorando Pietri, il maratoneta di Londra 1908, nativo di Correggio, il quale, “abituato a pensare in dialetto, era impacciato come un anatroccolo. Sembrava lui lo straniero”. Altro libro, altro fake Doyle. In Sade in drogheria, Barbolini fa atterrare l’investigatore più noto d’Albione a Ornavasso, Piemonte, insieme al fido Watson. La stralunata bellezza sta nel fatto che Holmes se la deve vedere con “uno svizzero lungo e magro sulla quarantina, dall’aria svagata”. Robert Walser. Il grande, lunare, scrittore svizzero. Titolo ovvio – a posteriori – Un walser per Sherlock Holmes. In questo caso il ‘giallo’ – che c’è, nordico garbuglio – parla allo spirito e alla testa, fa sorridere e rende perfino più intelligenti. Va bene anche per femmine pluriquarantenni, con le voglie al loro posto, vogliose di genio.
Flavio Santi, L’estate non perdona, Mondadori 2017, pp.240, euro 17,50
Roberto Barbolini, Sade in drogheria, Guaraldi 2015, pp.136, euro 12,90