Dicono tutti che Matteo Salvini sia il solo, nella vicenda della trattativa di governo, ad essersi assicurato una posizione Win-Win: vince se chiude l’accordo con i Cinque Stelle, ma vince anche se l’accordo salta e si ritorna al voto, visto che i sondaggi lo danno in grande ascesa. E però si si vede in controluce un’altra possibile narrazione della storia, un diverso modo di raccontare questi giorni concitati, i quali costituiscono per molti versi l’esame di maturità di un leader che è in politica da oltre un ventennio ma, finora, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi di partito, non ha mai ricoperto posizioni di governo, neppure quelle minime di un assessorato comunale.
“Il Ruspa”, anche quando era seconda o terza fila della Lega di governo, è stato un professionista dell’opposizione interna ed esterna, uno specialista del beau geste protestatario – dal tifo contro la Nazionale di calcio italiana al rifiuto di stringere la mano al Presidente Ciampi – e della dichiarazione apodittica, il giovane con l’orecchino che mentre i fratelli maggiori diventavano sindaci, presidenti di Regione, presidenti di Commissione, persino ministri, restava ancorato al suo ruolo di eterno Peter Pan del leghismo di lotta. È una posizione che ha pagato senza esporlo a eccessivi rischi anche perché “gli adulti” – Umberto Bossi e Roberto Maroni prima e Silvio Berlusconi poi – hanno spicciato per lui il lavoro difficile e in qualche modo “sporco”. Cucire accordi. Accettare compromessi. Trattare con le istituzioni. Destreggiarsi tra le inchieste. Governare processi nel bene e nel male.
Nella trattativa di governo in corso, Matteo Salvini si gioca il salto di qualità che divide i capi-popolo, che sono importanti ma non segnano la storia dei partiti, dai veri leader che determinano svolte politiche o quantomeno soluzioni di governo e potere reale
Eletto due volte alla Camera, nel 2008 e nel 2013, per due volte ha preferito involarsi a Bruxelles, evitando così di condividere con il suo partito e la sua alleanza le rogne dell’ultimo governo del Cavaliere e le responsabilità (comprese quelle in materia di immigrazione) della gestione leghista del Viminale. Mentre “i grandi” si incartavano nella peggior crisi del secolo lui girava le feste padane per la delizia dei militanti, e moltiplicava la sua popolarità, tra cori contro i napoletani e battute cattiviste. Il resto lo sappiamo. È diventato un mito. Il popolo lo ha incoronato capo non solo della Lega ma dell’intero centrodestra. Ma adesso che deve smettere i panni di Lucignolo, che deve uscire dal Paese dei Balocchi del consenso facile, ne sarà capace?
Vent’anni fa i suoi parenti e fratelli maggiori riuscirono nell’operazione. La Lega Nord di allora era, se possibile, ancora pià aliena e “barbara” di quella di oggi. Un partito che adorava il dio Po, predicava la secessione, denunciava la “colonizzazione meridionale”, faceva azioni dimostrative a Venezia usando carri armati di cartone. La sua classe dirigente fece l’accordo con Silvio Berlusconi – anche lui un outsider assoluto – conquistò il governo e riuscì ad esprimere il presidente della Camera (Irene Pivetti) e cinque ministri “pesanti” (Interno, Bilancio, Industria, Politiche Europee e Riforme). Umberto Bossi aveva all’epoca 53 anni, non molti in più del Matteo Salvini odierno. Roberto Maroni, che si prese la vicepresidenza del Consiglio e il Viminale, era addirittura più giovane: 39 anni.
Ecco perché questo esame di maturità non è una posizione Win-Win per il segretario leghista. Nella trattativa di governo in corso, Matteo Salvini si gioca il salto di qualità che divide i capi-popolo, che sono importanti ma non segnano la storia dei partiti, dai veri leader che determinano svolte politiche o quantomeno soluzioni di governo e potere reale. Se andasse male, sarà lui il capro espiatorio del fallimento, e forse le nervose risposte delle ultime ore sono il segno di questa consapevolezza che si fa strada. Esattamente come succede agli studenti dopo l’interrogazione risulterà difficile giustificarsi dicendo «Il professore ce l’aveva con me».